In mezzo al dibattito che si è aperto nel Paese tra favorevoli e contrari alla Dad (didattica a distanza), è arrivata finalmente la presa di posizione di chi ne subisce gli effetti sulla propria pelle. Gli studenti hanno scelto di scendere in piazza e di farsi sentire. La Dad è alienante, la Dad non è un’alternativa, ma solo una misura emergenziale che nulla ha a che vedere con la scuola e con l’insegnamento. C’è voglia di tornare in classe e di farlo in sicurezza. Questo è in sintesi quello che emerge dalle proteste degli studenti, che chiedono dunque che la scuola e il ritorno alla normale vita scolastica in totale sicurezza diventi la priorità di governo e regioni. Priorità, dunque, un concetto che però è molto lontano dalla realtà dei fatti. Perché la scuola non produce profitto, non appartiene a categorie commerciali per le quali sono ammessi ristori o ricorsi alla cassa integrazione.
La scuola è destinata a soffrire, abituata ad essere messa in disparte da anni, ferita da una narrazione distorta che scarica su di essa (e non sulle politiche scellerate dei governi susseguitisi nel tempo) ogni colpa del suo malfunzionamento, descrivendo il corpo insegnanti (il meno pagato in Europa e ampiamente segnato dal precariato) come un corpo molle, poggiato sulla presunta condizione di “garantiti”. Una retorica insopportabile che poi si traduce in una condizione di abbandono da parte di istituzioni e politica. Come dimostra quello che sta avvenendo oggi, a un anno quasi dall’inizio della pandemia, con la scuola bistrattata e con decisioni che stanno producendo conseguenze drammatiche delle quali, forse, si prenderà coscienza tra qualche anno. La scuola non produce profitto, questo è il suo vero problema. Non un profitto quantificabile in denaro, quantomeno. Eppure il costo che questa pandemia e la gestione del tema scuola stanno producendo sarà immenso.
Un costo che non è solo culturale (che già di per sé è grave), ma anche e soprattutto sociale. La Dad, che dopo una fase iniziale fallimentare ha trovato adesso una maggiore funzionalità, rimane comunque una toppa su una voragine enorme. Non può certo essere una alternativa all’apprendimento in presenza, e hanno ragione gli studenti a ribadirlo. Ecco perché è sciocco controbattere che non ci sono altre soluzioni possibili e che la paura del contagio giustifica l’accanimento su uno strumento che non è sufficiente e che produce danni non semplici poi da riparare. Possiamo ragionare per ore sulle difficoltà della scuola pubblica, figlie di una situazione complessa da molti punti di vista (organico, spazi, problemi strutturali, dispersione, ecc.) che esiste da molto prima del Covid. Quello che non possiamo fare, però, è prenderci in giro e girare intorno alla questione parlandone come se la posta in gioco fosse una quisquilia.
Troppo facile dire che si deve tenere chiuso perché altrimenti aumentano i contagi. Così come sostenere che il problema dei trasporti escluda qualsiasi possibilità di dare il via libera anche ai ragazzi. Il tema qui è un altro. Riguarda il ritardo, non solo del governo, ma anche di regioni ed enti locali sulla questione della riapertura delle scuole. E siamo al vero punto, quello sollevato anche dagli studenti: dopo un anno, come è possibile che non si sia fatto tutto il necessario per far cessare la Dad? La risposta potrebbe essere semplice: l’istruzione dei giovani non è una priorità da tempo. Almeno da quando la politica ha smesso di avere una sua dimensione culturale. Ma in realtà, le risposte sono diverse e più complesse, e poco c’entrano con la querelle sui dati, con le accuse non dimostrabili circa la non comunicazione dei contagi da parte delle scuole, con le polemiche sui dati del ministero non aggiornati, con i fantomatici indicatori costruiti da alcune testate per dimostrare che le scuole sono focolai potentissimi (tesi smentita dall’ISS).
Qui il problema è un altro e ha due facce crudeli: il disinteresse per il futuro dei giovani e la totale indifferenza verso quelli che Papa Francesco ha definito gli scartati. Da un lato, in questo anno di pandemia, l’interesse per la scuola, per l’impoverimento culturale e le difficoltà di apprendimento che questa situazione sta determinando, è stato subordinato rispetto a quello per la produzione e i consumi, che ha spinto a non toccare o toccare meno quei settori potenzialmente più a rischio contagi (fabbriche, industrie) e a prendere decisioni discutibili (la riapertura al turismo in estate, lo shopping natalizio, ecc.). Dall’altro, si voltano totalmente le spalle a coloro i quali con la Dad vivono situazioni drammatiche di esclusione. Situazioni confermate dall’Istat e non certo frutto di suggestioni o di idee occasionali. Una esclusione che brucia, che costa e che non può trovare giustificazione alcuna.
Non solo i disabili (da aprile a giugno scorso quasi 70mila su 300mila non hanno preso parte alle lezioni online, secondo Istat), ma anche coloro i quali si trovano già in situazioni di disagio socio-economico o in zone povere dal punto di vista delle infrastrutture digitali. E non parliamo di numeri minimi. Come riportava il Censis nel 2018, “sono più di 3 milioni (3.039.268) i minori a rischio di povertà o esclusione sociale e 1,6 milioni quelli che vivono in condizioni di povertà assoluta. Tale povertà materiale è significativamente correlata alla cosiddetta povertà educativa, testimoniata sia da più basse performance cognitive sia da un minore accesso all’offerta culturale”. A tutti questi soggetti, il disinteresse di tutte le istituzioni coinvolte (governo, regioni, enti locali) sta dando il colpo di grazia, con tutto quel che significa. E chi sostiene ancora che è il prezzo da pagare per evitare una diffusione dei contagi (naturalmente senza affidarsi a dati certi ma solo a racconti parziali, a esperienze personali circoscritte o alla narrazione dominante) è complice di questo disinteresse.
Tornare a scuola deve essere la priorità, riorganizzando gli spazi, organizzando i trasporti, trasformando i turni in modo da non affollare gli spostamenti (soprattutto nelle grandi città), mettendo a disposizione edifici e spazi pubblici nel caso di insufficienza di spazi per alcuni istituti. Impossibile? No. Soprattutto nella gran parte delle province, dove anche gli spostamenti sono più ridotti e riguardano una piccola percentuale di persone, ampiamente gestibile. La questione è puramente di priorità. Quello che la scuola secondo molti (purtroppo non solo per la politica) non è più da anni.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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