Il 27 gennaio, giorno della Memoria, è un luogo temporale per non dimenticare l’orrore di un secolo ancora vicino, che ci ha lasciato in eredità il peso sfiancante di un dolore terribile, quello che i sopravvissuti alla Shoah possono ancora raccontarci di persona: Hitler, Mussolini, le leggi razziali, i campi di sterminio, la guerra senza regole, le stragi, le umiliazioni, il frutto di una lucida e spietata strategia con cui il nazifascismo ha organizzato la scientifica eliminazione di milioni di persone. Il giorno della Memoria, però, somiglia sempre più a una mera commemorazione, lontana da ciò che conta e serve davvero, ossia l’esercizio quotidiano, il significato completo e profondo di questa memoria. A parte i sopravvissuti, i saggi, le persone che hanno compreso davvero quel che è accaduto, tutti gli altri che se ne fanno di questo ricordo? Il 27 gennaio si svegliano tutti: dalle istituzioni europee e italiane ai mass media, ai singoli cittadini più attenti, fino a scuole, parrocchie, comunità.

Nessuno lascia passare questo giorno senza dire o scrivere qualcosa contro quell’orrore, pubblicando foto, frasi, citando i versi di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, mettendo in programmazione film, dibattiti, approfondimenti storici, rilasciando dichiarazioni ufficiali piene di “mai più”, “non si dovrà mai ripetere”, e così via. Ma ha davvero senso questa memoria così intesa? Ha senso se rimane un concetto sterile e incatenato al passato? Ha senso se è divenuta parziale, cioè vincolata solo a chi ci viene facile ricordare, ossia quella parte di vittime che consideriamo più simili a un ipotetico “noi”? Commemorare i morti ebraici è l’unica cosa che ammettiamo alla nostra coscienza collettiva, ignorando sistematicamente, ad esempio, gli zingari e gli omosessuali, vittime di serie B, lontani da una possibile istituzionalizzazione, più adatti, dinnanzi agli occhi crudeli della morale e del perbenismo, al ruolo di colpevoli.

Non se ne parla. Non ci sono messaggi rivolti ai capi delle comunità rom e sinti o ai rappresentanti delle associazioni per i diritti degli omosessuali. Si è scelto di differenziare la memoria, di svuotarla di ogni attualità che potesse richiederne un esercizio concreto. Ricordare le vittime ebraiche, oltre che doveroso è più semplice, perché gli ebrei oggi hanno rappresentanza, hanno uno Stato che li protegge, hanno comunità solide e riferimenti al potere. A noi non si richiede di far qualcosa in più, se non indignarci ed esprimere solidarietà quando qualcuno tira fuori idiote logiche antisemite. O al massimo, se siamo onesti intellettualmente, protestare e denunciare quando Israele compie azioni violente e rappresaglie nei confronti dei palestinesi a Gaza o nei campi profughi in Cisgiordania. Ma è facile, estremamente facile, perché sono questioni rispetto a cui possiamo fare poco.

Il difficile è invece esercitare questa memoria correttamente, nel nostro quotidiano, aprendo la porta di casa nostra e passeggiando tra i diritti negati e le discriminazioni, che nascono già nell’elaborazione del ricordo, nella celebrazione e nella commemorazione della storia. Sarebbe giusto, il 27 gennaio, vedere i rappresentanti delle massime istituzioni recarsi non solo dai rabini delle città italiane, ma anche nei campi rom, parlare di Olocausto accanto alle guide delle comunità zingare, ricordare le loro vittime, occuparsi quotidianamente, insieme a volontari e rappresentanti delle associazioni, dei diritti di queste minoranze etniche, lavorare insieme contro esclusione ed emarginazione, confrontarsi, spazzare via le generalizzazioni, conoscersi.

Sarebbe giusto, il 27 gennaio, vedere gli stessi rappresentanti dello Stato entrare nelle sedi delle associazioni che si battono per i diritti degli omosessuali, ricordarne le vittime, annunciare magari l’approvazione, senza alcun compromesso al ribasso, di una legge che riconosca diritti oggi ancora negati per colpa di chi la memoria la usa come carta igienica, dimenticando, il 27 gennaio così come gli altri giorni dell’anno, di trovarsi in perfetta sintonia, non solo verbale, con gerarchi delle SS, con Hitler e con tutti quelli che oggi starebbero dalla loro parte. Che senso ha una memoria che non insegna a non ripetere gli stessi orrori, come quelli che l’Europa, i suoi stati, l’Italia consentono e compiono, in via diretta o indiretta, nei confronti di esseri umani in fuga dall’inferno, profughi disperati contro cui abbiamo costruito muri, recinzioni, emarginazione, morte? Nessuno.

Il giorno della Memoria è solo un giorno per fortificare il nostro conformismo retorico, quello che ci fa piangere di pietà, ma a patto che le vittime siano bianche, in perfetta sintonia con i costumi occidentali, eterosessuali e soprattutto lontane dal nostro tempo e dalle nostre possibilità di azione e opposizione. Resta dunque un solo giorno per partecipare al dolore collettivo e sterile, al cordoglio conservatore che non dia fastidio al potere, alle sue logiche e ai suoi calcoli troppo spesso simili a quelli di chi ha prodotto la Shoah, in un periodo nel quale, da più parti, si propongono leggi e interventi che trovano atroci somiglianze con il passato.

Un periodo nel quale, peraltro, le piazze delle città europee sono spesso attraversate da simboli, slogan e militanti che si richiamano al buio di quella storia e all’oscurità del negazionismo, liberamente, senza divieti o limiti. Questa è l’Europa quotidiana, quella che riparte dopo il 27 gennaio, giorno di falsa tregua in mezzo alla guerra vera contro gli esseri umani e i loro diritti. Un’Europa priva di memoria, miseramente incapace di renderla attiva, di coniugarla al presente, usandola per stare dalla parte degli ultimi, degli emarginati, dei nuovi perseguitati di questo tempo disumano.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org