Sono passati quasi quindici anni, ma di quei passi incerti non ho scordato nulla. Domande, dicevano, “fai domande”, e dicevano pure “scrivi solo quello che puoi dimostrare”. Che significa che devi conoscere bene quello che vuoi dire alla gente, ché poi, dopo, manco tutte le divinità sfornate nei secoli possono venire a dirti che hai torto. Delia e Roberto, in quella fucina a due passi da Montecitorio mi diedero i primi mezzi per muovermi nel giornalismo con la schiena dritta, e si presero pure il rischio di affidarmi delle inchieste, con la prima sui militari morti per uranio impoverito – al fianco della Commissione di Franca Rame – sulla quale oggi neanche so se avrei detto con la stessa noncuranza “ok, tranquilli, ci penso io”. Qualche mese dopo, poi, con la testa sull’esame da professionista, mi trovai sotto gli occhi il concetto di “verità sostanziale dei fatti”, e non me lo tolsi più dalla testa.

E così è andata a finire che tutte le volte che ho scritto un pezzo mi sono trovato a schiacciare il selciato di quella strada sbirciata quindici anni avanti, quella strada fatta di domande e di verità sostanziale dei fatti, e ogni benedetta volta che la ricerca di quella verità s’è fatta complessa, lunga e tagliente, scivolosa e profonda, ogni benedetta volta che m’ha obbligato a infilarmi dentro caverne sorde e buie a cercare le tessere dei mosaici che dovevo comporre per offrire un quadro completo, ho sentito risalire dalle piante dei piedi e lungo il tronco dell’encefalo un’adrenalina speciale; un’eccitazione, una voglia d’esplodere con tutte le parole che andavano dette, una necessità d’urlare come stavano le cose fino a sentire la gola vuota e bruciante. Solo perché qualcuno, non importa chi, avrebbe dovuto farlo.

Qualche giorno fa mi sono ritrovato tra le mani le carte stilate dalla Commissione Regionale Antimafia sull’attentato a Giuseppe Antoci, quella relazione che ha fatto nascere diverse discussioni tanto nelle sedi giudiziarie quanto fra le pagine dei giornali, in tv e sul web: gli ho dato un’occhiata, poi ho tirato giù uno schema e nel giro di qualche minuto mi sono trovato sul web con decine di pagine aperte, la penna in mano e una montagna d’appunti. Quella necessità d’urlare fino a sentire la gola vuota e bruciante è ricomparsa improvvisa e stringente. Perché, a dirla con le parole di Fabio Venezia, il Sindaco di Troina sentito da Report proprio in merito a questa vicenda, “la domanda che sorge spontanea è se negli ultimi anni abbia fatto più danni l’antimafia che la mafia stessa in questa maledetta terra di Sicilia”. E in qualche modo a questa domanda bisogna rispondere.

I fatti sono questi: la notte tra il 17 e il 18 maggio 2016, Giuseppe Antoci, allora presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi, subisce un agguato mentre sta rientrando a casa. Si trova in auto, con scorta al seguito, ma è costretto a fermarsi per via di una serie di pietre che tagliano la via e sbarrano la strada, lì sulla stradale 289 tra Cesarò e San Fratello, e una volta fermo vengono esplosi tre colpi calibro 12 contro la sua vettura blindata. Antoci, illeso, scende dalla Lancia Thesis e sale sul SUV nero della scorta. Gli attentatori sono messi in fuga, uno viene ferito.

Antoci era balzato agli onori della cronaca per un importante “Protocollo di Legalità” che aveva messo a punto per l’assegnazione degli affitti dei terreni del parco, protocollo su base del quale è divenuto di fatto obbligatorio presentare il certificato antimafia anche per i terreni di valore inferiore a 150.000 euro: “Abbiamo bloccato il business di terreni demaniali ottenuti dai mafiosi in concessione da amministratori corrotti o impauriti a 30 euro per ettaro anziché 3 mila per accaparrarsi dalla Ue fondi da 500 mila euro cadauno per colture biologiche mai impiantate”, ha spiegato. Un’arma efficace contro la mafia, talmente efficace da venire estesa, in breve, prima alla Sicilia tutta e poi all’Italia intera. In merito a quella notte di marzo Antoci parla di agguato mafioso, i pm che indagano parlano di agguato mafioso, la stampa parla di agguato mafioso, e in breve Antoci viene riconosciuto come eroe antimafia scampato ad uno degli agguati considerati più gravi dopo i fatti di Capaci e via D’Amelio.

Poco dopo, però, la Commissione Regionale antimafia, presieduta da Claudio Fava, decide di occuparsi dell’agguato per via dei dubbi che vengono sollevati circa la dinamica dei fatti e le possibili conclusioni, e alla fine di quella relazione scrive: “il lavoro di questa Commissione, più che esprimere conclusioni certe e definitive, si trova costretto a dar atto delle molte domande rimaste senza risposta, delle contraddizioni emerse e non risolte, delle testimonianze divergenti, delle criticità investigative registrate”. In sostanza Fava e gli altri membri sostengono che, dopo aver analizzato nel dettaglio i fatti conosciuti, carte alla mano, restano sul piatto tre ipotesi circa l’agguato: 1) attentato mafioso fallito; 2) atto puramente dimostrativo; 3) simulazione. Di queste tre quella dell’attentato mafioso fallito appare, per la Commissione, la meno probabile. Tutto questo, chiaramente, viene ampiamente argomentato.

Apriti cielo. Antoci si dice “basito”, la stampa si sorprende. Dall’alto di Mediaset “Le iene” si interessano del caso, e l’inviato Pecoraro chiede di intervistare Fava. L’intervista diventa ferro rovente: nel servizio andato in onda su Italia 1 a Fava viene detto senza mezzi termini “lei ha attaccato Antoci”, anche se Fava non lo ha mai fatto, anzi: il lavoro di Antoci nell’ambito della lotta alla mafia viene lodato. Basta poco per capire che non c’è alcun intento di trovare risposte su quanto posto dalla Commissione: Pecoraro non cerca di indagare qualcosa, ma di dimostrare qualcosa. “Le iene” parlano di fango su Antoci, di “mascariamento” per gettare discredito sull’ex presidente del Parco dei Nebrodi, ma Fava, che vede il servizio dopo la messa in onda, carica sul web un lungo video nel quale spiega come sono andate le cose durante l’incontro con Pecoraro, lasciando che scorra parte dell’audio integrale dell’intervista dove si sente l’inviato urlare che in quella relazione sono scritte “stronzate”.

Fava, che giornalista è da sempre, nel video spiega che fare giornalismo significa analizzare i fatti, porre delle domande e, soprattutto, non avere preconcetti: gli bastano pochi minuti per mostrare gli errori di Pecoraro in quell’intervista, errori che hanno reso chiaro come quello che hanno mandato in onda “Le iene”, alla luce di tutto questo e alla luce di quello che penso io – memore della strada indicatami anni fa – non era giornalismo. “Le Iene” avrebbero dovuto analizzare i fatti, offrire un quadro completo e approfondire le possibili conclusioni, ma non lo hanno fatto. Nessuno di quelli che hanno contestato i lavori della Commissione lo ha fatto: la Procura di Messina ha parlato di “elucubrazioni mentali” e Antoci in questi giorni ha rilanciato, dicendo di aver sporto denuncia contro quello che considera “un tentativo di delegittimazione”, arrivando a chiedere le dimissioni di Fava.

Anche una parte politica ha chiesto le dimissioni del Presidente della Commissione: Mario Michele Giarrusso ha parlato di “sconsiderato attacco”, sottolineando la versione del “mascariamento” (e questo anche per via di una vicenda che ha visto Fava chiedere approfondimenti sui fatti che vedono coinvolto il giornalista Paolo Borrometi, considerato altro paladino dell’antimafia). A conti fatti sembra che tutti si concentrino su un solo aspetto, cioè sull’ipotesi della “simulazione” avanzata dalla Commissione, senza considerare che il quadro che viene offerto è molto più ampio, e che per forza nel novero dei dubbi deve essere inserito anche questo. Insomma: nessuno, nel contestare la relazione, interviene davvero nel merito.

Eppure il lavoro della Commissione Antimafia appare zelante: contiene tutti gli atti documentati e si avvale dei rapporti, delle indagini, delle domande e delle risposte, finanche dei dubbi di giornalisti esperti e qualificati, e – si badi – non è basato solo sul lavoro dei componenti politici, ma anche di quello di consulenti di altissimo livello. Come Bruno De Marco, magistrato in pensione, ex presidente del Tribunale di Catania, e Tuccio Pappalardo, poliziotto in pensione, ex direttore nazionale della DIA. Nello specifico nella relazione ci si chiede come mai, se di mafia parliamo, la mafia abbia fallito l’attentato: Cesare Giorgianni, giornalista che per anni si è occupato di cronaca nera in Sicilia, ha voluto chiarire che “la mafia non sbaglia”, spiegando che quando si organizzano “giochi di fuoco” di questo livello il bersaglio viene centrato, a costo di “smontare una montagna” (ha ricordato, Giorgianni, che proprio sui Nebrodi, a Tortorici, la mafia rase al suolo una caserma).

Ci si chiede come mai, se di mafia parliamo, ad essere armato fosse un solo attentatore sui tre che (stando ai diversi tipi di mozziconi rinvenuti) pare fossero presenti. Ci si chiede come mai, se di mafia parliamo, sui 35 chilometri di statale a disposizione tra Cesarò e San Fratello, il presunto commando abbia scelto di organizzare l’attentato a 2 chilometri dal rifugio della forestale presidiato anche di notte da personale armato. Ci si chiede come mai, se di mafia parliamo, la criminalità locale né le famiglie di cosa nostra interessate al territorio nebroideo ne sapessero nulla (questo, si badi, stando alle intercettazioni e al lavoro di intelligence investigativa, come confermato da Mario Ceraolo, ex vicequestore di Polizia che, interpellato dall’allora Procuratore di Messina, Lo Forte, per avere informazioni dalle sue importanti fonti in ambito mafioso, chiarì che la risposta era stata unanime: “la mafia non c’entra nulla”).

Insomma: dal quadro indiziario viene fuori una mafia sbadata, approssimativa, che si arma di un fucile da cacciatore e addirittura di bottiglie molotov – cosa che a me appare decisamente come un unicum nella storia mafiosa – senza poi neanche usarle, queste bottiglie, addirittura senza lasciarvi impronte, ma dimenticando allo stesso tempo dei mozziconi sul luogo. Mafia sbadata, pure. E poi ci sono altri dubbi: le pietre che sbarravano la strada ad Antoci, ad esempio, pare non fossero un ostacolo insormontabile (non massi, quindi, ma pietre che – stando alle risposte di chi le ha visionate – potevano arrivare a pesare al massimo una quindicina di chili, se non meno). Il comportamento della scorta, poi, è apparso inusuale, dato che è arrivata a violare le rigorose procedure da seguire (l’auto non prova a forzare il blocco e Antoci scende e fa più di 20 metri per salire sull’altra vettura non blindata). Inusuale è apparso anche l’affidamento delle indagini: sono state ristrette alla squadra mobile di Messina e al commissariato di provenienza dei quattro poliziotti protagonisti del fatto (praticamente le vittime), fatta eccezione per un contributo tecnico dello SCO e per l’intervento della Scientifica di Roma molto tempo dopo.

E poi un dubbio inquietante sollevato da una donna, l’ex moglie del sovrintendente Calogero Emilio Todaro: Todaro è morto per leucemia fulminante il 2 marzo 2018, cioè il giorno dopo il decesso per arresto cardiocircolatorio del collega Tiziano Granata, assistente capo che faceva parte con lui della squadra del vicequestore Daniele Manganaro. Granata guidava il SUV nero della scorta, Todaro da responsabile del settore Polizia Giudiziaria giunse sul luogo poco dopo l’esplosione dei colpi di fucile, e avrebbe dovuto seguire le indagini sull’agguato per conto del Commissariato di Sant’Agata di Militello in co-delega con la squadra mobile di Messina. Entrambi hanno perso la vita per quelle che sono state definite cause naturali, malori improvvisi che hanno falciato con straordinaria sincronia la loro giovane età. Dopo il servizio de “Le Iene” e il polverone sollevato, la donna ha chiesto di essere sentita dalla Commissione Antimafia, spiegando che i giorni dopo l’attentato Todaro appariva molto preoccupato. Va detto, però, che le due morti, sebbene singolari, appaiono come nulla più che due incredibili coincidenze.

Insomma: alla luce di tutto questo se io potessi tornerei ad occuparmi di cronaca, di inchieste, e spenderei tutte le domande possibili cercando ogni tipo di risposta, e spremerei tutte le parole che ho in corpo per tentare di offrire un quadro chiaro e di gettare luce su una vicenda che a me sembra davvero inquietante. Perché dopo il caso Montante l’antimafia non può permettersi di fondare il suo onore su certezze granitiche quando la verità sostanziale dei fatti, di fatto, non si riesce a raccontarla.

Seba Ambra -ilmegafono.org