La complessità delle società che hanno un passato di schiavismo o segregazionismo può essere letta come una sovrapposizione, e anzi quasi una coincidenza matematica, tra l’appartenenza etnica dei cittadini e la loro appartenenza a una precisa condizione sociale. Praticamente, in quei contesti, il povero non è prigioniero solo della sua condizione sociale, ma anche della sua identità etnica. È così nei Paesi con una storia schiavista, come gli Stati Uniti e il Brasile, nei confronti degli afroamericani, è così nei Paesi segregazionisti nei confronti di neri o aborigeni, come il Sudafrica o l’Australia, ed è così anche là dove ancora vige il razzismo coloniale, come in Bolivia o Guatemala nei confronti degli indios. Società povere e società ricche, tutte sono accomunate dall’esclusione delle “minoranze etniche” (che, in realtà, talvolta sono maggioranze) dall’educazione, dalla sicurezza, dall’abitazione, dal lavoro qualificato.
In questi Stati la popolazione carceraria è costituita soprattutto da appartenenti alle etnie emarginate e le politiche repressive si accaniscono contro i più poveri, che vivono ghettizzati nei quartieri degradati, con alti tassi di tossicodipendenze, alcolismo e violenze domestiche. Gli Stati Uniti sono forse l’esempio più evidente dei guasti profondi generati dalla crescita economica senza un vero progetto di integrazione sociale e culturale. La loro storia vede la conquista dell’indipendenza dall’Inghilterra da parte di un gruppo di coloni anglosassoni e scandinavi che hanno usurpato i territori dei nativi, destinati a essere sistematicamente eliminati, e che hanno dato vita a una società schiavista. Al momento della nascita del Paese, erano cittadini di quella nazione solo i bianchi discendenti dai coloni. I neri erano schiavi, gli “indiani” considerati stranieri da combattere.
L’espansione verso ovest aggiunse agli esclusi i chicanos, cioè i messicani, indios o meticci, che vivevano da sempre in California, nel Texas, nel Colorado, nel New Messico, diventati Stati dell’Unione. Gli Stati Uniti divennero quindi una grande democrazia multietnica, ma solo in teoria. Gli amerindi superstiti furono riconosciuti cittadini solo nel 1924, rimanendo comunque oggetto di discriminazione fino al 1964 insieme ai neri, che erano stati ufficialmente schiavi fino al 1865 per divenire poi vittime dell’apartheid negli Stati del Sud. Tutta la mitologia degli Stati Uniti cozza contro questa storia. La tradizione del pranzo di Ringraziamento dei coloni puritani nacque per ringraziare non solo Dio, ma anche i nativi che li avevano salvati da morte sicura donando loro tacchini e pannocchie di mais: eppure questa origine fu “dimenticata” per evitare di dover riconoscere nulla agli amerindi. È il caso di ricordare che il padre della patria, George Washington, non volle nella Costituzione della nascente Unione riferimenti alla schiavitù perché lui stesso era proprietario di schiavi.
Siccome la storia non si cancella, a distanza di secoli si pagano ancora i danni di quelle ingiustizie e violenze originarie. Le politiche di tolleranza zero degli anni ‘80 hanno criminalizzato la povertà, associata al colore della pelle, dando mano libera a una polizia violenta, nella quale lavorano non pochi squilibrati seguaci del suprematismo bianco. Se nelle città degli Stati Uniti è scoppiata l’ennesima rivolta è perché la società è attraversata da una frattura profondissima. Il concetto di comunità, nella realtà statunitense, definisce più un recinto che un insieme di persone. C’è la comunità afroamericana, c’è quella latina e c’è quella bianca. C’è la comunità che vive nei quartieri dei ricchi e quella che vive nei quartieri dei poveri, con giustizia e sanità da ricchi o da poveri. Ogni comunità gode di un pezzo, o degli avanzi, di ciò che il sistema offre.
Pochi diritti sociali sono universali negli Stati Uniti, e sono stati ottenuti solo con la lotta. Lotta che diventa disperata e talvolta violenta quando si innesca il detonatore della questione razziale. Il ciclo si ripete uguale a se stesso: afroamericani arrabbiati che spaventano i bianchi, bianchi che temono di perdere il loro status e che votano solo per autodifesa, ma anche minoranze che votano solo chi parla per loro. La storia dice che l’esclusione, il razzismo, la violenza hanno minato dall’interno quella che per molti è la madre di tutte le democrazie. E la cronaca, per chi la vuole interpretare, ce lo ricorda spesso.
Alfredo Luis Somoza (Sonda.life) -ilmegafono.org
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