Silvio Berlusconi è il politico italiano che ha ricoperto più a lungo la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia repubblicana: parlamentare e senatore della Repubblica, dal 27 novembre del 2013 non siede più a Palazzo Madama per via dell’interdizione ai pubblici uffici collegata alla condanna per frode fiscale a quattro anni di reclusione (tre condonati dall’indulto), e attualmente ricopre la carica di parlamentare europeo, continuando a presiedere il partito fondato nel 1994, Forza Italia, uno dei riferimenti politici del centrodestra italiano, recentemente vittorioso alle elezioni regionali in Calabria.
Al processo “’Ndrangheta statista”, il boss Giuseppe Graviano, attualmente detenuto al 41bis con diversi ergastoli addosso, già reggente del mandamento di Brancaccio-Ciaculli insieme al fratello e legato a doppio filo ad alcune stragi mafiose e all’omicidio di don Pino Puglisi, ha accusato Berlusconi di avere creato gran parte del suo impero grazie a venti miliardi di lire ricevuti dal nonno di lui, ricco imprenditore, e che su base di quel denaro ha intrattenuto, da mafioso, dei rapporti con quello che poi è stato quattro volte Premier. Non c’è alcuna certezza in merito a quanto detto dal boss, e le sue dichiarazioni al momento possono tranquillamente essere messe al fianco della smentita di Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi. Servirà tempo e servirà lavoro per fare luce, ma è bene ricordare, in questo periodo che vede l’Italia camminare ancora sulla spinta di una classe politica approssimativa, confusa e che in una parte sostanziale continua a trovare in Berlusconi un punto di riferimento, che ci sono fatti e dichiarazioni che viaggiano su binari simili e che non possono essere messe al fianco di smentite.
Silvio Berlusconi ha avuto rapporti con esponenti mafiosi italiani versando denaro nelle casse di cosa nostra, con la quale ha curato interessi personali. Tali rapporti sono provati: esistono certezze che si fondano su condanne passate in giudicato, e abbiamo il dovere morale di ricordarle sempre. La certezza che probabilmente ha avuto maggior rilievo mediatico riguarda Vittorio Mangano, che visse e lavorò dal 1973 al 1975 a Villa San Martino, ad Arcore: era considerato da Berlusconi uomo di fiducia, sebbene nel 1974, già stabile in casa sua, venne arrestato per una precedente condanna per truffa, schedato già come mafioso, uscendo poi subito per un cavillo. È stato un pluriomicida, indicato al maxiprocesso come affiliato alla famiglia di Porta Nuova (il pentito Spatuzza dirà in seguito che fu capomandamento negli anni delle stragi ‘92 e ‘93), e definito “testa di ponte” da Paolo Borsellino per il ruolo di collante tra Nord e Sud giocato per conto di cosa nostra.
La certezza più importante dal punto di vista della storia personale di Berlusconi è legata invece a Marcello Dell’Utri, suo stretto collaboratore: cofondatore di Forza Italia, è stato condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. È stato provato, e per questo è conclamato, il suo contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti di un’associazione di tipo mafioso.
Il fatto che cosa nostra stia alla base dei rapporti di Berlusconi con Dell’Utri e Mangano è dimostrato, ad esempio, da un incontro datato 1974: nella sede della Edilnord, a Milano, si riunirono col Cavaliere, oltre a Dell’Utri, Gaetano Cinà, boss della famiglia Malaspina, Francesco Di Carlo, boss di Altofonte, Girolamo Teresi, che Buscetta descrisse come omicida di Mauro De Mauro, e Stefano Bontate, uomo a capo di Santa Maria del Gesù, la più potente famiglia mafiosa dell’epoca. Dell’incontro si parla nelle motivazioni della sentenza di condanna in appello dello stesso Dell’Utri, nel 2013, e ne parlò anche Di Carlo, arrestato nell’85 e divenuto collaboratore di giustizia l’anno successivo.
Gli anni Settanta erano gli anni dei rapimenti ai danni di uomini ricchi del nord Italia (Luciano Leggio aveva espresso la sua volontà di portare a Palermo i soldi del Nord), e Berlusconi, allora trentenne e vistosamente ambizioso, chiese protezione, pagandola duecento milioni di lire. A detta di Di Carlo si rivolse a Bontate senza fronzoli: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. E ancora: nel processo a Dell’Utri viene presentato, come riscontro oggettivo alle accuse, un libro mastro della cosca all’interno del quale, tra le varie trascrizioni in codice, compare la sigla “Can 5” alla quale corrisponde la scritta “regalo 990, 5000”. Si tratta di un codice tradotto dai pentiti come «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione», il che ha portato i magistrati a concludere che Berlusconi pagasse, finanziandola, la mafia. Il “regalo”, stando alle dichiarazioni dei pentiti, è legato a un favore concesso da Riina a Dell’Utri, favore finalizzato all’avvicinamento dei vertici della politica di allora.
Questi sono spezzoni, stralci, frammenti della vita che l’attuale Presidente di Forza Italia ha condotto per scalare il vertice del Paese, e a chi in questi anni ha parlato di complotto tutte le volte che un pentito come Graviano ha citato Berlusconi, va ricordato quello che hanno evidenziato i giudici a Dell’Utri: nessuno ha mai portato un fascicolo completo sull’ex premier in seno ad un processo, un faldone che avesse la pretesa d’essere considerato un’opera omnia, un vangelo sui suoi rapporti con la mafia, ma ogni pentito ha raccontato una parte della storia, quella che conosceva, che doveva conoscere per forza di cose perché legata alla sua famiglia di riferimento, e solo il lavoro dei giudici, abili nel mettere insieme i tasselli grazie anche ai riscontri oggettivi e all’approfondita conoscenza del mondo mafioso e delle sue dinamiche, ha permesso una ricostruzione organica.
Quello di Graviano potrebbe essere un altro tassello della vita di Silvio Berlusconi, che nelle cronache verrebbe annoverato fra i fatti rilevanti legati all’imprenditore e all’uomo politico, subito dopo la vittoria in Calabria del partito di cui è attualmente Presidente.
Seba Ambra -ilmegafono.org
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