Francesco Marcone, per molti, è un nome qualsiasi, sconosciuto e lontano dai riflettori così come la sua storia, la sua vicenda terminata tragicamente la sera del 31 marzo del 1995, a Foggia, capoluogo di una provincia da sempre invasa da una criminalità spietata e di cui, almeno a livello nazionale, si parla molto meno di quanto sarebbe necessario fare. Una Gomorra pugliese che ha i suoi morti e i suoi martiri, con vicende che ancora non hanno trovato una verità e, tantomeno, una giustizia. Francesco Marcone era il direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, un funzionario onesto che amava il proprio lavoro e non si limitava a timbrare un cartellino, ma sentiva il senso profondo, civico, morale del dovere. Passava le sue giornate lavorative, che spesso terminavano ben oltre le ore di ufficio, a verificare le pratiche, a studiarne la regolarità, a dissiparne le ambiguità, a svolgere indagini fiscali su giri di affari miliardari.

Proprio quel suo rigoroso senso del dovere gli aveva permesso di accorgersi di un sistema fraudolento messo in atto da falsi intermediari che, dietro pagamento, garantivano il rapido disbrigo delle pratiche presso l’Ufficio del Registro. Marcone, allora, decise di non girare lo sguardo dall’altra parte: non si limitò semplicemente a segnalare la cosa all’interno della propria amministrazione, ma denunciò tutto, sia in Procura che attraverso una sua lettera inviata a tutti i professionisti della città, chiarendo che “l’ufficio non si avvale di figure intermediarie ma provvede alle comunicazioni ed alle notifiche direttamente ai soggetti interessati”. Una denuncia pubblica, un atto di libertà che appartiene agli onesti, a chi crede giustamente che solo svolgendo il proprio lavoro al meglio e con dedizione si possa creare uno Stato virtuoso, mettere all’angolo i sistemi criminali che lo infettano e costruire un futuro di equità e giustizia per tutti i cittadini.

Svolgere il proprio lavoro significa essere fieri del proprio ruolo e della propria responsabilità nei confronti della comunità, vuol dire non attenersi al minimo indispensabile, non sottrarsi a quella responsabilità quando si fiuta qualcosa che non va, che affonda nell’illegalità, nel sotterfugio, nel liquame di sistemi illeciti diffusi. Marcone quella denuncia la fece il 22 marzo, poco più di una settimana prima di essere ammazzato. Aveva scoperto il marcio, aveva scoperchiato un vaso di Pandora che conteneva con tutta probabilità la mappa degli affari sporchi tra organizzazioni criminali, professionisti, imprenditori e chissà cos’altro.

Nel Paese dei corrotti e dei corruttibili, egli ha provato a infilare il suo senso del dovere e di giustizia, certamente sapendo, grazie alle sue indagini, a cosa sarebbe andato incontro, a quanto fossero elevati i rischi. Ma, come fu per l’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, quando assunse l’incarico di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, anche per Francesco Marcone non c’erano possibilità di scelta differenti da quella di fare fino in fondo il proprio lavoro, con la stessa intransigenza e onestà di sempre. Perché ci sono cose, nell’animo di un essere umano, che, al contrario di quel che si pensa, non hanno prezzo.

E chi, la sera del 31 marzo, mandò un killer a uccidere il direttore Marcone, questo lo aveva capito. Due colpi alla nuca mentre si trovava davanti al portone di casa, poco dopo le 19, rincasando da una dura e lunga giornata di lavoro. Un assassino vigliacco che spara alle spalle di un lavoratore onesto: questo è il quadro conclusivo e tragico di una storia che l’Italia conosce poco, rispetto ad altre vicende che hanno insanguinato il Paese e colpito l’opinione pubblica. L’associazione Libera, anche quest’anno, ha ricordato Francesco Marcone, del quale a Foggia esiste un monumento commemorativo, e continua a conservarne la memoria. Una memoria che diventi esempio, per tutti quei funzionari che oggi, nelle varie amministrazioni dello Stato, si trovano spesso davanti a situazioni nelle quali bisogna scegliere tra il senso pieno del dovere e la codardia o, peggio ancora, la complicità.

Una vicenda che faccia comprendere al popolo bue che i dipendenti e i funzionari onesti, corretti, lavoratori instancabili esistono anche in quelle strutture pubbliche che vengono costantemente e genericamente additate (con il contributo decisivo di politici irresponsabili) come covi di fannulloni, vampiri o incapaci. Francesco Marcone non era un eroe, era uno dei tanti lavoratori che credevano nel proprio ruolo e cercavano di applicare le regole, era un uomo che aveva voglia di far funzionare al meglio il suo ufficio. Lo hanno fermato, lo hanno ucciso.

Mandanti ed esecutori sono ancora sconosciuti. In realtà, però, i mandanti sono tutti i cittadini che non si sono ribellati ai sistemi criminali che egli aveva denunciato. Sono tutti coloro che di quei sistemi si servivano come scorciatoie o come fonti di guadagno. Siamo tutti noi italiani che per anni abbiamo ignorato questa storia e questo nome, semplicemente non parlandone o parlandone troppo poco. Sono tutti coloro i quali da questi esempi, purtroppo, non impareranno mai.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org