Di solito, alla fine di un anno, si tende spesso a tracciare bilanci di quello che è stato, piuttosto che immaginare quello che sarà. Ed è normale, poiché ci si appoggia meglio alle cose vissute e conosciute anziché a quelle che sono solo ipotizzabili. Forse la soluzione di mezzo, quella più salutare, potrebbe essere di ragionare sul presente, su ciò che accade ora e adesso. Le ultime settimane sono state popolate, oltre che dalle solite tristi schermaglie politiche, dai dibattiti quasi ossessivi sul cosiddetto movimento delle sardine, sull’analisi dei punti di forza e di debolezza, tra osanna, critiche, fake news maldestre. A chi piacciono, a chi no, chi le ama e chi le detesta.
Tutto nella norma, perché quando qualcosa non si conosce bene o quando si muove con certe velocità e dimensioni, nascono gli entusiasmi ma anche le insofferenze, le antipatie, i pregiudizi. E quando ci si espone e non si è perfetti, né si pretende di esserlo, si può incappare in qualche errore offrendo il fianco alle tante bocche di fuoco pronte a sottolinearlo, senza nemmeno aspettare, senza nemmeno dare il tempo di correggersi. Tutto questo è normale, è quasi tautologico in una democrazia del web, dove ogni cosa si consuma a una velocità supersonica.
Quello che però non è normale, da parte di nessuno, è continuare a fingere che queste piazze non dicano nulla o continuare a pretendere che debbano dire tutto. Qualsiasi cosa. Come se tutto questo spirito di partecipazione fosse niente, come se migliaia e migliaia di persone scese spontaneamente in oltre cento piazze, in Italia e in Europa, fossero un dettaglio, qualcosa di vuoto, silente. A questa gente composita e composta, che si è incontrata solo una volta in piazza e poi (parte di essa) in una assemblea nazionale, vorrebbero affibbiare il compito di risolvere qualsiasi problema, di parlare di qualsiasi tema, in un inno ossessivo alla tuttologia che evidentemente, in Italia, è diventata un pregio, un valore anziché una moda stolta e nociva. Ciò detto, non c’è alcuna intenzione, in questa sede, di esaminare il ruolo e la fisionomia delle cosiddette “sardine”. Sarà il tempo a fornire le risposte e a dirci cosa avverrà in futuro.
Quello è il domani, così come le ragioni che hanno acceso le piazze, sorprendendo il Paese e la classe politica, rappresentano un fatto già avvenuto. Il punto è il presente e concerne un aspetto fondamentale: il rapporto tra la politica e il popolo elettore, tra il potere e la cittadinanza, tra gli stessi movimenti di opinione e la popolazione. Ci sono sentimenti, equilibri psicologici, strati culturali che oggi si confondono nel marasma di un Paese condannato da anni a parlarsi sul web, dove parlarsi non è il termine appropriato, perché il web non è quasi mai dialogo, ma sempre più spesso litigio, insulto, negazione dell’altrui punto di vista. Ciò avviene spesso e riguarda tutti, perché tutti ci si è cascati almeno una volta. Sono quei sentimenti, quegli equilibri ad esser finiti nel tritacarne delle faine dei social, di quelle squadracce di comunicatori e di malvagi esperti di marketing che hanno azionato le leve giuste per trasformare l’emozione in consenso.
Il popolo è divenuto centrale, si è trasformato nel totem della politica, in una sorta di oracolo da ascoltare, anche quando in realtà il popolo lo si disprezza. Basta poco, basta mischiarsi con loro, fare qualche foto e fingere di esserne parte, chiacchierare con loro con un tweet intimo, condividere momenti privati e adeguarsi al linguaggio. A questo gioco ha ceduto buona parte della classe politica di questo Paese, perdendo quello che a lungo è stato un merito della politica stessa: occuparsi del popolo senza lasciarsi guidare dal popolo. Perché il popolo, in sé, non esiste e lo dimostra la storia, così come lo dimostra l’ondivago andamento del consenso. Esistono invece i cittadini. Un tempo c’era un filtro che mediava l’ascolto, che mediava la distanza tra politica e cittadinanza. Un filtro culturale che depurava le richieste dei cittadini dagli istinti di ciò che viene considerato popolo, istinti che sono propri di chi non conosce l’arte del governare un Paese.
Lo stomaco restava fuori dall’attenzione della politica, che poteva anche occuparsi dei muscoli, dei pugni stretti, delle urla di protesta, ma mai poteva concedere spazio allo stomaco. Negli ultimi anni, soprattutto gli ultimi dieci, anche se il processo parte a metà degli anni ‘90, lo stomaco è l’organo che ha dominato la scena politica di questo Paese. Le colpe? Sono di tutti, di chi gli ha dato spazio e di chi, accorgendosi di non essere capace di fermarlo con la necessaria convinzione, ha preferito assecondarlo e continua a farlo, spesso inconsapevolmente. C’è una assordante paura della paura. Un raddoppio di un concetto che è diventato il fulcro della comunicazione politica destinata agli elettori, oltre che base e concetto cardine di interi complessi normativi dalla portata crudele e disumana. C’è paura di prendere una posizione contro la paura e il concetto distorto di sicurezza che ne deriva.
A sinistra, o almeno in una parte di essa, il gioco del consenso si è trasformato in metodico tradimento di valori fondanti e costituzionalmente tutelati. Si ha paura che essere chiari, alternativi, netti, osare su ciò che dovrebbe essere naturale e normale, possa scatenare la reazione degli odiatori, ma soprattutto far aumentare il consenso proprio per quei sovranisti che si dice di voler combattere. Come se non ci si fosse resi conto che, se la gente è arrivata a scendere in piazza per chiedere un cambiamento, è proprio perché non ne può più di una politica incapace di presentarsi come alternativa al sovranismo, una politica timida, mediana, codarda che, alla chiara e decisa crudeltà di una parte, risponde con i tentennamenti e le moderazioni. Tutto per paura di quella paura che è alla base del consenso.
Ma consenso di chi? Della parte avversaria? O degli indecisi, ossia di una massa amorfa che non sarà mai interamente conquistata da chi di fatto non la rappresenta? Un vero caos. Forse allora, quella piazza che chiede di abrogare i pacchetti sicurezza e tutte le leggi basate sulla paura e sull’esclusione, e che si affida alla Costituzione, dovrebbe ascoltarla primariamente chi pensa di poter provare a rappresentarla. Cioè non i sovranisti, ma chi pensa di esserne l’alternativa democratica. Perché quelle piazze rappresentano un altro concetto di popolo, rappresentano quel gruppo di cittadini che non casca nel tranello, che non è massa acritica scondinzolante davanti al boccone di odio che qualche furbo comunicatore gli mette in bocca. Quelle piazze sono cittadinanza, tornata ad essere attiva. E non meritano solo una pacca sulla spalla e una dichiarazione di empatia. Meritano ascolto concreto e risposte. Meritano fatti.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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