Sono passati 16 anni dal G8 di Genova, dalla morte di Carlo Giuliani e dalle scene irreali, trasmesse dai giornali, su manifestanti sanguinanti trascinati fuori dalla scuola Diaz in piena notte. Immagini surreali, a rivederle con occhi maturi. Ne parliamo poco e male, con la tendenza alla memoria di questo Paese che, invece di perseguire la comprensione dei fatti, tende a ignorarli o a trasformarli in un fantoccio su cui, saltuariamente, posare una corona. Facciamo allora un passo indietro, con l’aiuto di una lettera aperta di Lorenzo Guadagnucci e Vittorio Agnoletto sul sito del mensile Altreconomia (leggi qui).

Il pregio più alto della lettera è proprio questo: guardare a “Genova G8” come a un evento storico profondamente correlato alle vicende odierne. Per prima cosa, il rapporto con il reato di tortura di cui già ci siamo occupati e di cui conoscete la storia. Secondo, il rapporto con principi oggi attualissimi come “la libertà di movimento per ogni essere umano, il ripudio del debito iniquo, la democrazia partecipativa”.

Certo è che comprendere Genova G8 purtroppo non significa soltanto impegnarsi in un’analisi per quanto critica del presente, ma anche e soprattutto tentare di capire come è stato possibile che si perpetrassero degli abomini teoricamente inusuali in uno Stato di diritto. Sebbene non possa essere ridotto solo a questo, pena quella di debilitare tout court un movimento che proprio dopo Genova è finito per esser stato delegittimato, Genova G8 rappresenta sicuramente uno dei punti più bassi in assoluto della nostra democrazia.

A tal proposito, ha fatto molto discutere, in questi giorni l’intervista rilasciata da Franco Gabrielli, attuale capo della Polizia, al quotidiano Repubblica. Il titolo è di quelli sensazionalisti (“Il G8 di Genova fu una catastrofe”: Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. “Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso”), ma leggendo attentamente l’intervista non pare proprio che il capo della Polizia sia diventato una tuta bianca. Anzi. Alcuni passaggi sono abbastanza peculiari e lanciano dei messaggi che sembrano in contraddizione proprio con il titolo scelto da Repubblica.

Si leggono, infatti, queste parole (siamo convinti di non travisare né decontestualizzare riportando, per sottolinearli, questi singoli passaggi): “Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro”. Sembrano le parole di chi vuol dimenticare una brutta storia, invece che indagare a fondo.

E ancora, alla domanda del giornalista Carlo Bonini, che gli chiede quale sia il giudizio che Gabrielli dà circa la gestione dell’ordine pubblico, il capo della Polizia risponde così: “Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto, per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell’ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei ‘Disobbedienti’ di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l’intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito”.

Insomma pare quasi che sia colpa di Casarini e Agnoletto il non aver saputo governare la piazza. Ci sia concessa quantomeno la perplessità. Ancora più significativamente, Gabrielli afferma subito dopo che “si ritenne, sciaguratamene […] che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un’irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche ‘prove’ per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell’operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni”.

In poesia si chiama preterizione la figura retorica del dire non dicendo e, questa intervista, sembra proprio questo.
Beninteso che Gabrielli è assolutamente estraneo ai fatti e può e deve dire ciò che ritiene più opportuno, di certo però permetteteci di rimproverare a lui questo navigare ondivago tra sentimenti contrapposti che, francamente, smorzano molto il tono e il valore dell’analisi che il titolo dell’articolo voleva mostrare. E che lascia aperte molte riflessioni, più o meno polemiche.

Penna Bianca -ilmegafono.org