Si dice che il potere logori chi non ce l’ha. O almeno si diceva molto spesso nell’Italia democristiana degli anni ‘80, un paese nel quale la politica, di fronte alle difficoltà e agli scandali, aveva la straordinaria abilità di inabissarsi, superare la tempesta e rimettersi in piedi con un ghigno sardonico. Poi c’è stata Mani Pulite, è arrivata Tangentopoli e qualcosa sembrava essere cambiato: il potere lo abbiamo visto scricchiolare, logorando finalmente chi lo deteneva abusandone quotidianamente. Si è pensato che fosse davvero il punto di svolta, un solco tra un passato grigio e un futuro più terso, tra una vecchia Repubblica consunta da vizi, ruberie, rapporti oscuri e sotterranei con chi muoveva le leve economiche e politiche, e la speranza di una nuova Repubblica fatta di merito, equità, prevalenza dell’interesse pubblico. Ci è voluto poco per accorgersi che quella speranza sarebbe rimasta vana.
Il post Tangentopoli ha lasciato per di più le polemiche e qualche vicenda umana da raccontare, da una parte e dall’altra della barricata. Sul piano politico, ha incanalato un tipo di protesta, molto impulsiva e poco costruttiva, in forse politiche inadeguate a darle una fisionomia culturale votata a un reale cambiamento, a una capacità di guardare avanti e di farlo non con le urla o il banale richiamo alle manette ma con l’introduzione di meccanismi virtuosi di selezione della classe dirigente e di proposte normative solide. Così, gli stessi vizi di sempre ce li siamo portati fino ai giorni nostri, spesso ritrovando perfino gli stessi protagonisti, i tanti sopravvissuti che si sono rigenerati nel pantano di una politica tremendamente conservatrice dei suoi usi e costumi peggiori, in un clima di impunità generale facilitata da un ventennio di interventi legislativi imbarazzanti. Forse, però, sforzandoci di trovare un’ispirazione ottimistica, qualche volta il principio sacro secondo cui il potere logorerebbe chi non ce l’ha pare mostrare qualche cedimento.
Quanto sta accadendo negli ultimi tempi sembra dimostrarlo. La disperata corsa di Renzi verso una forma legale di potere assoluto, da realizzare con l’arroganza di maggioranze blindate da un patto di ferro con i poteri economici più forti (attraverso la cessione di quote di potere nelle loro aree di interesse), con una serie di riforme, prima fra tutte quella del Senato e della legge elettorale, sbattute in faccia al popolo e alle opposizioni a colpi di fiducia, ha trovato un inatteso ostacolo, che è forse quello più difficile da affrontare di questi anni di governo. Il potere di Renzi trova delle falle nell’inettitudine di una squadra di governo dilaniata dai pasticci familiari, da interessi che non sono più solo in conflitto, ma che sono divenuti anzi una “pacifica normalità”, trovando perfetta espressione nelle singolari scelte di affidamento dei ministeri, come nel caso della Guidi o anche dello stesso Poletti.
Interessi che sono finiti dentro l’ennesimo scandalo, che tra l’altro è una mazzata durissima sulla credibilità di un premier che ha sempre respinto le accuse di chi, proprio partendo dal tema delle generose concessioni ai petrolieri, parlava di un rapporto lobbistico evidente, di un intreccio perverso che aveva portato al decreto Sblocca Italia. Un decreto che, nella sua formulazione originaria, era un attentato di rara violenza nei confronti non solo dell’ambiente e della salute dei cittadini, ma anche dello sviluppo economico di interi territori e dei loro settori produttivi più redditizi. Va ricordato, a tal proposito, che lo Sblocca Italia, almeno per quel che riguarda le trivellazioni, è stato modificato solo grazie alla battaglia di movimenti di cittadini che hanno trovato sponda e voce anche in molti sindaci e governatori dello stesso partito di cui Renzi dimentica spesso di essere anche il segretario, ossia la sintesi delle varie aree e anime, e non solo un monarca assoluto.
Se non ci fossero state quelle voci, quelle prese di posizione, che per Renzi toccano uno degli aspetti più importanti, ossia la paura di perdere consenso elettorale nei territori interessati (che sono tanti), allora oggi il rischio di agguato ambientale sarebbe ancora più grosso (anche se permane ancora la questione della durata delle concessioni, che va assolutamente fermata con il Sì al referendum del 17 aprile).
Adesso, le indagini che riguardano Augusta, Viggiano e Tempa Rossa sono una vera e propria bomba, contro la quale il premier ha reagito dapprima con l’apparente calma di una strategia che prevedeva le dimissioni della Guidi, l’assunzione maschia della propria responsabilità per quell’emendamento incriminato e l’affermazione della assoluta legittimità dello stesso, tentando così di ridurre il tutto a una semplice questione di opportunità politica relativa alla telefonata tra la ministra dimissionaria e il suo compagno. Da parte sua, lo staff della comunicazione renziana, a colpi di tweet e post, ha cercato di consacrare questa linea, offrendo raffronti capaci di esaltare la differenza con nefasti episodi passati (come la Cancellieri nel governo Letta). Non è bastato, perché le opposizioni e quei movimenti che, da anni, denunciano quello che finalmente sta emergendo a carico di Eni e Total e di chi ha consentito certi comportamenti, non hanno abboccato e anzi hanno rilanciato.
Ma il vero problema è che questa volta Renzi si trova di fronte a un ostacolo ben più grosso dei sindacati, di qualche oppositore interno o esterno e dei movimenti ambientalisti: lo scoglio è una magistratura che indaga, con prove, intercettazioni, analisi e perfino cartelle cliniche. E allora, anche il rottamatore, l’indomito sterminatore di gufi, l’uomo arrogante che ha fatto del “tirar dritto” il suo slogan di governo, ha perso la calma e ha mostrato le sue crepe. L’attacco alla magistratura di Potenza, rea di non arrivare mai a sentenza, camuffato poi dal discorso sulla diversità del suo governo Pd rispetto “agli altri” (riferimento chiaro a Berlusconi e ai suoi passati governi), con l’invito ai magistrati di indagare e interrogare chiunque, ma di arrivare velocemente a sentenza, denota il nervosismo del capo di un esecutivo che ha fatto troppi errori e che, forse, non è in grado di gestire il potere senza lasciarsi logorare da esso.
Sia chiaro, Renzi non ha commesso alcun reato, le indagini sono in corso e accerteranno tutte le eventuali responsabilità dei personaggi coinvolti, ma quanto il caso petrolio assume oggi una grande risonanza politica proprio perché mette a nudo un nervo scoperto di questo premier e della sua squadra: l’aver scelto di guidare il Paese mano nella mano con industriali, multinazionali, aziende varie, figure di scarto del vecchio centrodestra. Forse, invece di riservare insulti e dichiarare guerra a sindacati, lavoratori, ambientalisti, studiosi dell’ambiente, costituzionalisti seri e stimati economisti che suggerivano misure differenti da quelle proposte da chi per anni ha prodotto solo disastri e nessuna crescita, Renzi avrebbe dovuto imparare ad ascoltare, a capire che il cambiamento non si fa distruggendo tutto, né tirando dritto il carro al servizio di una sola parte del Paese e del suo profitto.
Il premier che diceva di voler rottamare il vecchio, il marcio, le resistenze al cambiamento, ha volutamente sbagliato la mira riparandosi poi nel suo enorme potere, capace a lungo di deprimere chi invece da quel potere era escluso o schiacciato. Ci è riuscito fino a qualche giorno fa. Fino a quando (forse) ha capito che quel potere, quando non sei un vecchio democristiano circondato da altri vecchi democristiani, ma sei solo un loro presuntuoso discendente, rischia di logorare anche e soprattutto chi ce l’ha.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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