Per alcuni sarà desueto, banale, vecchio, superato, morto, noioso. Per altri persino fastidioso, irritante, il simbolo di qualcosa da rivedere, riscrivere sotto un’altra verità, quella della negazione e del revisionismo. Per buona parte di questo Paese, poi, esso rimane un giorno qualunque, un rosso da calendario che ti tiene chiuso l’ufficio. E invece non lo è. Non per quelli che credono nel valore di una storia viva, che hanno sentito raccontare direttamente da gente in carne e ossa, né tantomeno per quelli che l’hanno vissuta, per i testimoni diretti o indiretti, per coloro che hanno difeso il valore di un giorno nel quale l’Italia si scoprì grande e luminosa, pur in mezzo al sangue, alle macerie e all’oscurità più fitta. Il 25 aprile non ha smarrito il suo senso, malgrado qualcuno provi a farlo passar di moda. È più attuale che mai, ci avvisa, ci educa ancora.
Non è solo il giorno di una memoria che dobbiamo difendere, non è l’icona sacra da venerare come genitrice di una democrazia che, seppur imperfetta, claudicante, reumatica, esiste e permette di dissentire, scrivere, generare e diffondere, in mille forme, idee opposte a quelle ufficiali. È qualcosa di più profondo, è il lascito di una nazione venuta dall’inferno e tornata ad una vita normale, difficile ma normale, attraverso una pacificazione da contraccambiare con la tutela della memoria. Non dimenticare, per non ripetere le atrocità della storia. Ma provare nel contempo ad andare avanti, a progredire, costruire. Per tutti, non solo per una parte.
Da quel 25 aprile è venuto il meglio, sono venuti i costituenti che hanno realizzato una delle carte costituzionali più illuminate, moderne, compiute tra tutte quelle vigenti nei paesi cosiddetti sviluppati. Quasi settant’anni dopo, però, qualcuno comincia a sbuffare, come fosse qualcosa di anacronistico, come fosse un peso, una ricorrenza di parte a cui si è data importanza per troppo tempo.
Nel clima di pochezza politica, di populismo sfrenato, di visioni autoritarie e autoreferenziali, stanno provando a convincerci che il fiato della Resistenza, il suono della Liberazione, la melodia di una pace e di una democrazia conquistate con il sangue di donne e uomini comuni provengano dalle cavità stonate di tromboni da antiquariato, di Matusalemme del diritto, così poco alla moda, così tanto lontani dal cabaret del potere, dalle battute a effetto, dal sensazionale, dagli insulti, dalla velocità del fare qualcosa, qualunque cosa, anche senza una ragione. Insistono nel convincerci che la Costituzione è vecchia, che va cambiata e che ciò va fatto in fretta.
Si continua a credere che il 25 aprile sia vessillo di una sola parte, racchiusa dentro ideologie, simboli, orizzonti ben etichettabili. Si impedisce di cantare Bella Ciao in piazza, a Pordenone. Si consente a degli alpini di minacciare che non avrebbero preso parte alle celebrazioni qualora risuonassero quelle note che tutti, sin da bambini, a scuola, abbiamo imparato a cantare e ad associare alla Resistenza nel suo insieme. In questa Italia si ignora la storia. Si ignora la vastità, l’eterogeneità di un movimento di cittadini che scelse di salvare un Paese, nonostante fosse senza popolo e senza Stato e fosse nato da un’unità zoppa ed egoista. Fieri e coraggiosi, determinati nel cacciare il nemico peggiore del Novecento, aperti, lungimiranti, filantropici nel costruire il futuro dell’Italia liberata. Un futuro repubblicano che qualcuno ha svenduto non appena si è trovato a gestire l’eredità dei padri fondatori.
Il 25 aprile è appena passato, ma si è giunti alle celebrazioni con le solite provocazioni che paradossalmente hanno spezzato un silenzio e un’indifferenza che fanno ancor più male, perché mostrano la superficialità con cui si legge questa storia. Si è dovuto assistere, negli ultimi anni, a ragionamenti sul sangue dei vinti (operazione originariamente legittima fino a quando non è divenuta mezzo per generalizzazioni false e strumentali), a indegne parate istituzionali in quel di Salò, a tentazioni di parificazioni legislative tra partigiani e repubblichini. Tutti elementi che hanno rinfocolato le braci lugubri di nostalgici in nero che ogni tanto sfilano nelle piazze di una democrazia di cui sono ospiti.
Adesso, c’è qualcosa in più. La ricetta è più raffinata e mischia ingredienti ricavati, con discrezione, dall’orto instabile dentro cui qualcuno semina veleno. Oggi, infatti, le aggressioni sono più subdole e riguardano i tentativi di frantumazione di tutti quei concetti e di quelle strutture che sono alla base del vivere democratico. L’insofferenza nei confronti delle istituzioni, delle loro funzioni imprescindibili, degli organismi di garanzia, sul quale trovano pericolose convergenze forze politiche fortemente autoritarie e populiste, è un virus che sta andando oltre alcune ragioni originarie, travalicando i confini del buon senso e cavalcando un’onda popolare pericolosa. Ecco perché, oggi più che mai, dobbiamo fare in modo che il 25 aprile si riappropri del ruolo prioritario, del connotato di festa nazionale unificante. Perché il 25 aprile è una data che va difesa. E purtroppo, va difesa ogni giorno.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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