L’anno scorso, di questi tempi, giravo l’Italia in occasione del ventennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ricordo ancora l’emozione, il 19 luglio, di fare una presentazione, insieme all’amico Giovanni Maria Bellu, a Sestu, città natale di Emanuela Loi. Sono trascorsi 12 mesi e la settimana che precede questo nuovo anniversario è segnata dalla clamorosa sospensione dei lavori del Parlamento, il 10 luglio scorso, richiesta dal Pdl dopo l’annuncio dell’anticipo della sentenza della Cassazione sul processo Mediaset e accolta (in parte, un solo giorno contro i tre richiesti) dal Pd. L’ultimo atto, forse il più grave, dell’infinita guerra tra una parte della classe politica italiana e la magistratura.
Uno scontro inaudito, un’anomalia tutta italiana dovuta alla figura anomala e ingombrante di Silvio Berlusconi. Il Caimano fiuta il pericolo e schiera l’esercito. Una strategia che Nanni Moretti, con inquietante abilità profetica, aveva anticipato al termine della sceneggiatura della sua celebre pellicola ad esso dedicata. Da quando ho visto quel film, anni fa, non ho mai smesso di aspettare che questo momento arrivasse, come se lo avessi vissuto nella realtà. Evidentemente a quel finale ci ho creduto. Da subito. Forse è l’unico finale possibile, non possiamo permetterci di sperarne altri, sicuramente migliori. Certo, il triste gioco di sponda degli avversari storici, almeno sulla carta, non me lo sarei mai aspettato, così come un Parlamento che si ferma, in un momento drammatico per l’Italia, rinviando ogni discussione su temi importanti (come l’Ilva) per dare precedenza alle vicende private di un pregiudicato.
La rabbia straborda e la voglia di mandare al diavolo l’Italia è tanta. Ho trascorso un pomeriggio a scuotere la testa, il 10 di luglio. Non ci credevo. Non pensavo fosse possibile un ulteriore viaggio verso il burrone della nostra storia, a rimestare tra le viscere della terra più arida. Ho sentito il bisogno di attaccarmi alle cose e alle persone migliori. Per via della mia mancanza di fede, non parlo quasi mai con chi non c’è più. La mia immaginazione, però, e la mia assoluta fiducia nel valore della storia e degli esempi, mi portano spesso a indagare su cosa avrebbe pensato una certa persona se oggi fosse stata ancora qui. Ecco, il 10 luglio scorso ho avuto in mente, senza soluzione di continuità, il viso di Paolo Borsellino.
Lo stesso sguardo ritratto nella foto che campeggia sulla facciata del palazzo di Giustizia di Milano, quel palazzo violato recentemente dalla parata ridicola, con tanto di sacrilego utilizzo dell’inno di Mameli, dell’esercito del Caimano. Sempre loro: vassalli, cortigiane, eunuchi, luogotenenti, compagni di merenda, tutti uniti nella lotta contro la magistratura, colpevole di cercare di scalfire la granitica impunità di un pregiudicato, costruita a colpi di leggi ad personam e scappatoie varie.
Chissà cosa direbbe Paolo Borsellino, mi sono chiesto. Di questa Italia, poco più di venti anni dopo, di una politica sempre uguale, compatta, ramificata, ostile e spietata contro chi cerca di svelarne complicità, connivenze, perversioni, origini. Dei colpi di scena nel processo sulla trattativa Stato-mafia, dei messaggi di Riina, delle immagini di Provenzano, dell’isolamento di Nino Di Matteo, dell’addio di Ingroia alla magistratura e, prima ancora, del suo trasferimento in Guatemala allo scopo di sottrarre i colleghi della procura palermitana dal fuoco incrociato di cui era divenuta bersaglio.
Chissà, mi chiedo, se approverebbe la candidatura di Piero Grasso e le scelte fatte durante il suo lavoro di magistrato e procuratore nazionale antimafia nei venti anni successivi alle stragi. Mi rendo conto che a tanti di questi chissà ho già la risposta, perché Paolo Borsellino certe cose le aveva dette da vivo, aveva già avvisato tutti di quale fosse la strada e quali fossero le difficoltà, quali le cose da fare e quali quelle da evitare. Sapeva a cosa andava incontro, sapeva che la lotta sarebbe durata a lungo e che i protagonisti negativi sarebbero stati ancora qui a manovrare di nascosto certe leve. Ce lo ha detto e non tutti lo hanno ascoltato.
Ce lo hanno continuato a dire Agnese, Manfredi, Lucia, Rita e soprattutto Salvatore, che non smette di parlare, urlare, arrabbiarsi, chiedere giustizia agitando un’agenda rossa che è divenuta un simbolo, da Palermo a Roma, da Firenze a Milano. Un simbolo di lotta civile e di impegno contro la menzogna di Stato, un impegno che unisce cittadini di ogni origine ed età, compresi tanti di quei giovani che Borsellino e Falcone li hanno conosciuti dalla voce di associazioni, testimoni, docenti, attraverso i libri, i documentari o gli articoli di giornale. E hanno imparato ad amarli, a sentirli vicini, a sentire che quei magistrati, oggi tanto osannati, in vita erano soli e sotto accusa, sotto un attacco estenuante, da più fronti, di una portata senza precedenti.
Ho pensato che, nonostante questo orrore istituzionale, nonostante un Paese che procede nella pericolosa rotta indicata da un presidente che si sente sovrano, forse oggi Paolo Borsellino, pur se preoccupato, riuscirebbe a sorridere, a essere ottimista, come in quella lettera scritta poco prima di essere ucciso. Forse saprebbe cogliere meglio di tutti noi, scoraggiati e depressi, i segni di un cambiamento che probabilmente si manifesterà tra qualche anno o decennio.
E chissà se allora ci saranno ancora i protagonisti del triste spettacolo di questi giorni. Magari saranno meno longevi di Andreotti. Magari quel 19 luglio, in via D’Amelio ci saranno le istituzioni rinnovate, purificate, ripulite, a chiedere scusa per chi le ha precedute. E oltre a commemorare i morti, ci auguriamo possano celebrare, accanto ai vivi, una vittoria e una sconfitta: la vittoria della gente onesta e della verità e la sconfitta della mafia e dei suoi complici. Come sognava e credeva Paolo Borsellino. E noi con lui.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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