Era il pupillo di Paolo Borsellino e, in seguito alla sua morte, ne è stato un po’ l’erede professionale, continuando le sue battaglie e le sue indagini. Antonio Ingroia, il Procuratore aggiunto di Palermo (che ha lasciato l’Italia per un anno per andare in Guatemala a ricoprire l’incarico di capo dell’Unità di investigazione della Commissione internazionale contro l’impunità), lo scorso 6 novembre ha depositato, per sottoporlo al vaglio del giudice Piergiorgio Morosini, in vista dell’udienza preliminare che si terrà a Palermo il prossimo 15 novembre, un memoriale di 231 pagine (frutto del lavoro suo e dei magistrati da lui coordinati) che riassume le indagini condotte negli ultimi anni sulla ormai sempre meno “fantascientifica” trattativa Stato-mafia. Le conclusioni del documento, che illustra il ruolo dei 12 imputati per cui è stato proposto il rinvio a giudizio, sono molto forti ed impongono un’attenta riflessione sulla classe politica del nostro Paese, poiché alcuni degli “uomini di Stato” che avrebbero partecipato a quella vergognosa trattativa fanno ancora parte del panorama politico italiano.

Secondo quanto scritto dai magistrati la trattativa sarebbe iniziata nel 1992 ed avrebbe raggiunto i propri obiettivi solo due anni più tardi, nel 1994. Nel ’92, infatti, iniziò, per volontà di Totò Riina, la fase stragista, un periodo di indicibile violenza durante la quale persero la vita anche i giudici Falcone e Borsellino. Scopo di quegli ignobili massacri: «fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». E l’idea, stando alle indagini, funzionò. Si aprì il dialogo tra sanguinari criminali ed uomini di Stato, cominciò un capitolo vergognoso della storia italiana. “Tre  – si legge nel testo depositato dal pool di magistrati- sono  gli uomini degli apparati che hanno fatto da anelli di collegamento fra mafia e Stato: Mori, De Donno e il loro superiore all’epoca Subranni”. “Due – continua il documento- sono gli uomini politici, cerniera, cinghie di trasmissione della minaccia: Mannino prima e Dell’Utri dopo. Poi c’è Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa per il suo ruolo permanente di tramite fra il padre Vito e Bernardo Provenzano.

Due sono, infine, gli uomini di governo, l’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso e il politico Nicola Mancino, sui quali si è acquisita prova di una grave e consapevole reticenza e che in questa indagine è imputato per falsa testimonianza”. La prima fase della trattativa, nel 1992, sarebbe avvenuta per salvare la vita agli uomini politici che la mafia minacciava di uccidere. Nel 1993 tale dialogo avrebbe subito un’evoluzione puntando ad un alleggerimento delle condizioni del regime di “carcere duro” previste dal 41 bis (e riuscendo parzialmente ad ottenerlo con oltre 300 mancati rinnovi di questo provvedimento per decisione proprio dell’allora guardasigilli, Giovanni Conso). Nel 1994, infine, sarebbero arrivate per i boss le tanto attese garanzie da parte delle istituzioni.

Nella delicatissima fase di transizione tra la prima e la seconda Repubblica, Cosa nostra sarebbe stata alla ricerca di un nuovo referente politico che avrebbe individuato in Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.“Il lungo iter di una travagliata trattativa – ha dichiarato Ingroia – trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi come emerge dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori Spatuzza, Brusca, Giuffrè”. “Graviano – ha dichiarato al riguardo agli inquirenti Spatuzza – era molto felice, disse che avevamo ottenuto tutto e che queste persone non erano come quei quattro ‘cristi’ dei socialisti”. “La persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto – ha continuato il collaboratore di giustizia – era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri”.

“Grazie alla serietà di queste persone – avrebbe detto il boss Graviano a Spatuzza – ci siamo messi il Paese nelle mani”. Oggi, a vent’anni di distanza dalla scia di sangue e di terrore lasciata in quel periodo dalla mafia, sembra impossibile credere che lo Stato, la legge, sia davvero sceso a patti con dei criminali, che degli uomini eletti per rappresentarci e tutelarci abbiano invece messo l’Italia nelle mani di assassini spietati ma, come conclude il memoriale del pool coordinato da Ingroia, “dopo la morte di Giovanni Falcone irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) ragion di Stato e venne fornita apparente legittimazione alla trattativa”.

Le conclusioni dei magistrati palermitani non possono essere di esclusivo interesse del giudice Morosini. Ognuno di noi è chiamato a riflettere sull’atroce scenario descritto dai magistrati. Il nostro Paese vive un periodo molto particolare di crisi economica e sociale, e presto saremo chiamati ad esprimere il nostro voto per deciderne il nuovo assetto politico. Uno Stato con un po’ di dignità non può permettersi di affidare nuovamente il proprio futuro a gente priva di scrupoli, colpevole di aver trattato (nella migliore delle ipotesi) con degli assassini.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org