Luglio 2001-luglio 2024. Ventitré anni dopo il ricordo non si spegne: resta in quegli angoli della nostra storia e della nostra memoria, protetto. Ma il ricordo fine a se stesso non basta, ha bisogno di uscire da quell’angolo e porre domande, interrogativi che hanno bisogno di risposte. Cosa è cambiato da quell’estate del 2001, cosa rimane di quei giorni? A Genova, quel Movimento, represso dalla furia dello Stato, aveva ragione. Quella generazione non contestava quel G8 specifico, ma tutto quello che il G8 stesso rappresentava: un pugno ristretto di potenti della Terra che decideva su tutto quello che riguardava il mondo intero, senza nessuna considerazione delle sue genti. Nulla è cambiato da allora, quel gruppo è ancora in grado di decidere ogni linea e, dentro quella linea, il peso economico dei colossi privati comanda ancora sulle idee e sulla democrazia. Sono entrati nuovi soci nel club, altri sono usciti o hanno un peso specifico diverso, ma manca sempre la legittimazione democratica, nel suo senso più profondo.

Quel movimento, capace di unire migliaia di giovani, gruppi e associazioni, chiedeva ai “grandi” una strada diversa rispetto a quella globalizzazione che aumentava le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo. L’atto di nascita fu sancito a Seattle, nel 1999, in occasione dell’assemblea dei Paesi membri della WTO: da quel momento in poi divenne il “popolo di Seattle” e, nel gennaio 2001, a Porto Alegre, in Brasile, si svolse il primo Forum sociale mondiale (FSM) in aperta opposizione al World Economic Forum dei potenti della Terra. Il popolo di Seattle scrisse l’atto di accusa contro il potere finanziario e politico dietro cui agivano il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio. Dopo Seattle e dopo Porto Alegre è a Göteborg che si svolgono le prove generali, l’anteprima del film dell’orrore che si proietterà a Genova: l’occasione è il vertice del Consiglio europeo con il presidente americano George W. Bush. A Göteborg un corteo pacifico di ventimila persone viene represso dalla polizia, e non manca nulla: cariche a cavallo, manganelli sulle teste, volti insanguinati, l’irruzione nel liceo Hvitfedtska, dove la polizia svedese anticipa quello che succederà, il mese dopo, alla scuola Diaz di Genova. La risposta a quel Movimento è stata, e sarà, la repressione.

A Genova, un mese dopo, l’inizio è il corteo dei migranti del 19 luglio: “L’altro mondo comincia a farsi sentire, un fiume di persone si incammina chiudendo in gabbia il G8 e i suoi custodi, ridando colori, vita, suoni e parole a Genova. Parole di pace e di libertà: cancellare il debito dei paesi poveri, nessuno è clandestino in questa terra, milioni di bambini muoiono di fame e nessuno ci pensa, ci rubano anche l’aria…Parole che nessuno di buon senso di sentirebbe di condannare”. È il primo grande corteo no global dei giorni del G8: decine di migliaia di persone, migranti e non solo. Genova che si stringe intorno a loro, c’è quella comunità che si riconosce nelle parole di don Andrea Gallo, c’è il concerto di Manu Chao in piazzale Kennedy. Quello che succederà dopo quel giorno è scritto nella storia, e nessuno può cancellarlo e/o riscriverlo con parole diverse da quello che è stato: la repressione violenta e bestiale che tutto il mondo ha visto.

Sull’asfalto di piazza Alimonda restano la vita e l’impronta di Carlo Giuliani, ragazzo. Sui muri della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto restano le macchie di sangue che niente e nessuno potrà ripulire. Sullo Stato e le istituzioni di questo Paese restano le complicità e la vergogna, macchie che resteranno per sempre. Cosa è cambiato da quell’estate del 2001, cosa è rimasto immutato e cosa è peggiorato? Oggi tutti i nodi emergono nella loro drammaticità. Quel modello di sviluppo costruito sul capitalismo più estremo e che si alimenta della diseguaglianza sociale, fondato su mercati senza regole e senza controlli, oggi è arrivato alle estreme conseguenze e porta con sé non solo una mai realizzata redistribuzione delle ricchezze, ma anche la spaventosa e feroce cancellazione dei diritti umani e civili. Se ci fosse un nuovo 19 luglio, quel corteo dei migranti sfilerebbe insieme ai fantasmi e alle anime delle decine di migliaia di vite lasciate morire nel Mediterraneo e nelle rotte balcaniche, nelle galere della Libia e della Tunisia; in quel corteo si alzerebbe la voce di aiuto di chi viene cancellato nei lager di Stato, che la legge chiama CPR.

Ci sarebbe un altro concerto di Manu Chao, dove “Clandestino” sarebbe il canto di sempre: ieri come oggi. In quel corteo i bambini di Gaza sfilerebbero tenendosi per mano, accanto ad altri bambini come loro usciti dalle macerie e dalle bombe dei padroni di sempre. Quel corteo ci parlerebbe delle guerre che uccidono il futuro, in ogni angolo del mondo, perché il mondo brucia e l’incendio si allarga, si espande. C’è uno spaccato sempre più profondo, dove precipitano i Paesi più poveri il cui debito non solo non è stato mai cancellato, ma aumenta sempre più. In quello spaccato affonda la lama dei Padroni della Terra, quelli di sempre. Quel sistema che nel 2008 crollava per una bolla speculativa, creata dagli istituti finanziari, oggi si ricompatta attorno alla sua arroganza e al suo potere. Quell’estate del 2001 ha rappresentato uno spartiacque: il segno del comando e del potere non è più il singolo Stato ma è diventato la “governance globale”, dove non sono ammessi altri interlocutori.

È sotto gli occhi di tutti, oggi, il fallimento di quel modello di sviluppo. Le guerre in atto rappresentano solo il punto più estremo del fallimento umano e politico di quel modello. Dietro ogni guerra c’è sempre una spinta economica, alimentata certo dai nazionalismi e dall’odio etnico e razziale che hanno sempre covato sotto le ceneri, ma la conquista e/o il consolidamento di una supremazia del potere economico, l’espansione dei territori e il dominio dei mercati rimangono le molle principali di ogni guerra. La politica, nel senso nobile ed etico del termine, è ai margini di tutto questo, silente. Quella “governance globale” detiene il controllo, perché ogni guerra porta ricchezza e dopo ogni guerra serve una ricostruzione. Le bombe e i missili distruggono città, scuole e ospedali, uccidono le generazioni e il futuro, ma non scalfiscono la “governance” e anzi aggiungono nuovo posti.

Repressione: quella parola che gli Stati e i governi hanno fatto propria, senza mai pronunciarla, è ancora e sempre il primo comandamento. L’immunità che ha coperto chi in quei giorni di Genova ha scatenato l’inferno esiste ancora oggi, e una divisa blu è ancora l’armatura che protegge chi è indegno di rappresentare uno Stato: da piazza Alimonda a Bolzaneto, passando dalla scuola Diaz. Dalla zona rossa di Genova alle strade di Roma e di Ferrara, dai vicoli di Pisa e di Firenze, c’è sempre quella selva di manganelli alzati e sempre pronti ad incontrare il volto di studenti e lavoratori, di chiunque esprima dissenso. Ancora non esiste nessun codice identificativo per individuare chi colpisce in nome dello Stato, è la “governance globale” a volerlo, e il dissenso non è ammesso. Non è permesso uscire dal coro del consenso e della legittimazione, e vale per tutti. Dove sono oggi gli spazi di intervento, proposta, denuncia e mobilitazione contro quelle dinamiche di sfruttamento, quelle diseguaglianze tra ricchezza e povertà che la globalizzazione selvaggia ha determinato? Quegli spazi sono preclusi, e conquistarli è l’eredità che quel movimento ci ha lasciato.

20 luglio 2024. Sono in molti a pensare che il dissenso, le critiche e le speranze che muovevano quel movimento che voleva un mondo migliore siano diventati un residuo della storia, un ricordo lontano. Eppure sabato 20 luglio Genova si ritroverà ancora insieme, come accade ormai da ventitré anni. Piazza Alimonda, anzi piazza Carlo Giuliani, saprà ancora ritrovarsi e guardarsi negli occhi. Sarà tante cose: un abbraccio in più a Carlo, un altro incontro con il sorriso di sua madre Haidi e suo padre Giuliano. Non sarà un ricordo di rito, sarà il ritrovare occhi e sorrisi amici che ancora sanno riconoscersi da uno sguardo e amano ancora l’utopia, l’idea, anche quando restano ferite profonde, cicatrici che bruciano sempre sulla pelle e sui sentimenti. Ma l’idea che “un mondo diverso è possibile” resiste, anche quando sembra impossibile crederci. Poco o nulla è cambiato da allora, forse niente. Nemmeno noi, E per questo saremo lì, una volta ancora.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org