Poco più di un anno fa, la notizia della morte di Mohamed Bouazizi mi riempì di dolore e di amarezza. Un ragazzo di 27 anni, più giovane di me, terminava la sua agonia nel letto di un ospedale, con il corpo ormai distrutto dal fuoco di una rabbia rassegnata ma non silenziosa, sbattuta in faccia, nel momento più tragico, ai palazzi del potere locale, quelli che incarnavano l’ingiustizia o l’inerzia dinnanzi al perpetuarsi di soprusi e violenze quotidiane. Era un piccolo paese nel cuore della Tunisia, un centro in cui quel ragazzo laureato sbarcava il lunario facendo l’ambulante, con il suo carrettino nel quale frutta e verdura avevano sottratto spazio ai sogni. Non aveva licenza, ma aveva il diritto di vivere, di poter mangiare e aiutare la famiglia. Aveva avuto la sfortuna di incontrare, come tanti suoi concittadini e connazionali, l’arroganza manesca di una polizia corrotta, pronta a schiaffeggiare, a sputare in faccia a chi non pagava per ottenere che si chiudesse un occhio. E quando Mohamed decise di protestare dinnanzi alle autorità locali, il silenzio fu l’unica risposta. Un silenzio che divenne la miccia della sua rabbia stanca, a cui dar fuoco spargendo di benzina il proprio corpo e lasciandosi cadere addosso un fiammifero, non in una strada qualsiasi, ma davanti al palazzo del governo locale.

Un atto di denuncia, che ha innescato la Rivoluzione dei Gelsomini e la caduta del regime tunisino e, a catena, di tanti altri regimi del nord Africa. In questi giorni, non ho potuto non pensare a quel ragazzo, alla sua vita che è diventata Storia. Non ho potuto non pensare a quelle fiamme, a quel gesto, a quell’attimo in cui la vampata ti fa sentire tutta la sua potenza distruttiva. Non ho potuto non pensare che in Italia, in pochi giorni, ci sono stati due gesti simili, quello di un artigiano di Bologna (si è bruciato vivo per protesta per problemi con il fisco) e quello di un operaio marocchino che a Verona ha provato a darsi fuoco per problemi di lavoro, salvato solo dall’intervento tempestivo di un carabiniere. Casi e vicende diverse, ma comunque il campanello d’allarme di una situazione attuale in cui aumentano a dismisura i sucidi di lavoratori e piccoli imprenditori schiacciati da disoccupazione e crisi. E davanti a tutto questo, la rabbia cresce e diventa pulsante, velenosa, quando pensi che dai piani alti di questo Paese non arrivano le risposte attese, ma soltanto soluzioni di parte, che favoriscono sempre e solo chi, in questi ultimi 20 anni, ha inquinato il mercato del lavoro, indebolendo le tutele, istituzionalizzando l’illegalità di comportamenti che oggi vengono quasi assunti ad esempio.

La riforma del lavoro proposta da Monti e dalla Fornero, invece di rispondere all’angoscia e al dolore di chi ogni giorno va a braccetto con l’inquietudine e l’incertezza del proprio domani, parte dal progressivo smantellamento del sistema di garanzie e di diritti che rappresentano gli appigli ultimi in un mercato selvaggio, amorale, disumano. Si continua a tirare dritto sull’articolo 18, rendendo più facile e meno gravoso per le imprese il licenziamento, confidando ingenuamente in un non abuso dello strumento da parte dei datori di lavoro e in una vigilanza che in Italia non funziona mai. Monti dice di avere il consenso di buona parte degli italiani: sarebbe bello sapere dove vive il premier, quali strade percorre, se ha idea di quale sia il sapore della polvere pestata ogni giorno da chi si sveglia e va al lavoro senza alcuna tutela, con contratti precari se non addirittura fittizi, senza sapere se il giorno successivo quel posto ce l’ha ancora o no. Sarebbe bello sapere anche in che maniera lo abbia misurato questo consenso, dato che non è mai stato candidato e non ha mai dovuto conoscere l’esito di un’eventuale sfida elettorale.

Sarebbe interessante anche comprendere se Monti e i suoi hanno notizia di ciò che accade nel Paese, delle tante mobilitazioni, delle proteste, dei tetti, delle gru e delle torri occupate da lavoratori cacciati via da imprese che sperperano anche denaro pubblico. Le dichiarazioni colorate di ostentata sicurezza, di quella tracotanza tipica di chi, da tecnico, pensa di essere in possesso dell’unica ricetta possibile e ritiene che gli altri ne capiscano meno, sono facilmente opinabili e sono smentite da una realtà che si muove disperata tra le fila di un popolo che sta conoscendo un impoverimento medio spaventoso, rispetto a cui stona ed irrita l’arricchimento di chi, mentre gli altri riducono i consumi, foraggia e ingrassa il settore del lusso. L’impressione, a sentire Monti e la Fornero e a guardare le loro facce serie e austere, è che qualcuno stia provando a fare quello che Berlusconi non è riuscito a fare: stravolgere quel sistema di conquiste che una storia di lotte democratiche ci ha donato e che oggi vengono presentate, in modo strumentale e mendace, come l’ostacolo allo sviluppo.

Uno sviluppo che, al contrario, è strozzato dalla prolungata assenza di una politica economica limpida ed illuminata, libera da corruzione e mafia, lontana da quelle fasce del mondo produttivo inquinate, capace di creare un meccanismo di flessibilità del lavoro in cui, al primo posto, venga la tutela del lavoratore che fuoriesce dal mercato e che deve reinserirsi nel ciclo produttivo. D’altra parte, siamo il Paese in cui Marco Biagi è stato ucciso perché lasciato solo da chi poi ne ha usato il nome per imporre un progetto di riforma del lavoro che era incompleto, perché ancora privo di quel sistema di ammortizzatori sociali che per Biagi stesso costituivano una condizione imprescindibile per l’applicazione del suo schema di riforma.

Pensare che sia l’articolo 18 il punto di partenza di un nuovo modello economico è sospetto e profondamente perverso e somiglia più al prologo di una strategia di potenziamento di quegli interessi che si nascondono dietro i sostenitori di Monti e di alcune frange politiche che ne appoggiano l’esecutivo. Soprattutto insospettisce l’utilizzo, nuovamente, della strategia del consenso, quando si afferma che il popolo è dalla propria parte, senza guardare al di sotto del proprio pianerottolo, dove la realtà è opposta e dove si muove una rabbia pericolosa che, prima o poi, rischia di assumere forme incontrollabili. Perché non tutti scelgono di essere Bouazizi, non tutti sono disposti a lasciare che la propria rabbia bruci solo su se stessi. E questo è un rischio di ritorno al passato che questa giovane e travagliata democrazia non può assolutamente permettersi.

Massimiliano Perna- ilmegafono.org