Le pagine della vita parlamentare italiana offrono sempre una possibilità per capire gli errori del passato e cogliere la continuità di un pensiero autoritario e conservato fra la polvere, nascosto sotto il tappeto della storia. Quel pensiero autoritario racconta che il sogno della destra, in Italia e non solo, non si limita al “governo” ma punta a qualcosa di più alto: il comando. La riforma costituzionale sul premierato, che Giorgia Meloni presenta agli italiani come “la madre di tutte le riforme”, diventa così il punto di svolta della destra autoritaria che la stessa Meloni incarna perfettamente. È la carta tenuta nel mazzo per anni e che ora, forte del consenso ottenuto, viene estratta dalla manica. Una carta avvolta nell’ambiguità che maschera le reali intenzioni del giocatore: la premier italiana offre a tutti la sua spericolata interpretazione dell’Articolo 1 della Costituzione quando ricorda che “la sovranità appartiene al popolo”, ma ignora la parte conclusiva dello stesso articolo dove si afferma “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Meloni prova a sfruttare il successo e il consenso ricevuto nelle ultime elezioni per realizzare il sogno che la destra insegue da tanto tempo: scardinare il già difficile equilibrio fra i poteri dello Stato e le sue istituzioni per creare un potere senza alcun contrappeso. La presidente del Consiglio gioca con arroganza la sua partita e va avanti per la sua strada, il disegno prende forma e lei ripete in ogni occasione che “il premierato non serve a me, serve all’Italia”. Ma a cosa porterebbe questa riforma? La Costituzione assegna ai cittadini il compito di eleggere i membri del Parlamento, che poi esprimono in aula la loro fiducia per un governo e un presidente del Consiglio, che poi viene incaricato ufficialmente dal Capo dello Stato. Con la riforma, non sarebbe più il presidente della Repubblica a dare questo incarico al capo del governo in base al risultato elettorale, ma sarebbero direttamente i cittadini a scegliere. Così. non è solo il ruolo del presidente della Repubblica ad essere ridimensionato: assegnando al presidente del Consiglio un potere pressoché assoluto, infatti il Parlamento stesso andrebbe ad assumere una funzione marginale, quasi solo notarile.

Una proposta che ricorda le radici del fascismo e che serve per legittimare un “capo”, a cui assegnare quel potere libero da vincoli costituzionali.  Un altro aspetto rilevante della riforma riguarda il premio elettorale, che garantirebbe una maggioranza dei seggi in entrambe le Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio. Sulla questione del premio di maggioranza la discussione è aperta e una decisione finale si avrà, probabilmente con una nuova legge elettorale, solo dopo l’eventuale approvazione della riforma. Un passo indietro, allora, solo per ricordare come, nella storia delle leggi elettorali italiane, la legge Acerbo dell’aprile 1924 è quella che ha avuto la vita più breve ma con le conseguenze politiche più tragiche per il Paese.

Quella legge modificò il sistema proporzionale, in vigore dal 1919, introducendo un premio di maggioranza che permetteva alla lista che avrebbe ottenuto il maggior numero di voti rispetto alle altre di essere eletta interamente. Questo permise di rovesciare i rapporti di forza parlamentari, dove il fascismo era in posizione minoritaria, assicurando a Mussolini la legittimazione giuridica. Alle elezioni del 1924 la lista di Benito Mussolini ottenne il 60% dei voti e si assicurò, grazie a quel premio di maggioranza, 355 seggi su 535 alla Camera dei deputati del Regno d’Italia.

Oltre agli aspetti costituzionali e a quelli tecnici e pratici della vita parlamentare, esiste un dato di fondo su cui i cittadini italiani dovrebbero riflettere: cosa significa per la vita politica degli italiani la possibilità che simili poteri siano nelle mani della destra, fascista e razzista, che oggi guida il governo del Paese? Quali orizzonti e quale futuro si aprirebbero nella storia e nel futuro del Paese, a quali alleanze si darebbe vita, in Italia e in Europa? La svolta autoritaria è già in atto in Italia e questa destra cammina già sulla strada del comando: ha monopolizzato l’informazione, ha messo le mani sulla cultura e sulla scuola, sugli organi di controllo del dissenso politico e della vita sociale. Lo fa mettendo in mostra i muscoli e i manganelli nelle piazze, lo fa nella gestione dei migranti. Cosa manca ancora a questa destra per superare il confine della democrazia ed entrare a pieno titolo nella “grande famiglia” della destra fascista europea?

C’è un altro punto interrogativo, poi, a cui rispondere: quali sono le alleanze politiche di cui Giorgia Meloni ha comunque bisogno per affermare il suo “premierato”? È evidente che tale riforma avrà bisogno di altre forze politiche e questo porta, inevitabilmente, a prendere in considerazione la Lega di Matteo Salvini e l’intero arco della destra italiana. Gli alleati di governo che oggi consentono a Giorgia Meloni di guidare il Paese non accetteranno mai un ruolo da comprimari nel futuro assetto politico sognato dalla presidente del Consiglio, e lei lo sa benissimo. Cosa chiederanno in cambio e cosa lei sarà disposta a concedere? E poi, in fondo, sono così diverse le ambizioni dell’una e degli altri? Sono molti i punti in comune: l’arroganza politica, il razzismo, la guerra ai migranti e alle ONG, l’attacco frontale alla magistratura, il bisogno costante di creare un nemico e, infine ma non ultimo, il narcisismo di chi si erge sempre sul gradino più alto. Si sostengono a vicenda e, almeno per ora, hanno bisogno di questo reciproco sostegno. C’è un’anima nera che li accomuna, e non da oggi. Qualcuno solo adesso vede il vestito nero della Lega di Matteo Salvini, quasi rimpiangendo i tempi della Lega che fu di Umberto Bossi.

Ma la Lega è nera da sempre, lo era anche quando Bossi dichiarava di essere antifascista, ma mandava Mario Borghezio al Parlamento Europeo. L’avvocato Borghezio che approdava alla Lega dall’estrema destra extraparlamentare e che, dopo la strage in Norvegia compiuta da Anders Breivik – che si autodefiniva anti-multiculturale, anti-marxista, anti-islamista e “salvatore del cristianesimo” – , in un’intervista dichiarava che le idee espresse da Breivik “sono condivisibili”. In quell’attentato morirono settantasette persone, in gran parte giovanissimi. È lo stesso Borghezio che nel 2009, ad un convegno della Lega con il movimento di estrema destra francese “Nissa Rebela”, spiegava: “Bisogna rientrare nelle amministrazioni dei piccoli comuni. Dovete insistere molto sull’aspetto regionalista del movimento. Ci sono delle buone maniere per non essere etichettati come fascisti nostalgici, ma come un nuovo movimento regionale, cattolico, eccetera, ma sotto sotto rimanere gli stessi”.

La lega è nera da sempre, da Umberto Bossi a Matteo Salvini non è cambiato il DNA, è solo cambiato il nemico ufficiale: ieri erano i meridionali siciliani, calabresi e campani, oggi sono i migranti tutti, sono i centri sociali e gli studenti, i lavoratori che scioperano, la comunità LGBTQ+. Questa Lega, nera e razzista, oggi è al governo del Paese insieme a Giorgia Meloni e fra i suoi alleati europei spiccano le peggiori destre razziste e fasciste, le stesse che piacciono anche alla premier. Non devono ingannare le dispute, apparenti ma non di sostanza, fra Salvini e Meloni. Fanno parte del teatrino a cui la destra ricorre quando non vuole parlare dei problemi del Paese, ma non cancellano le ambizioni condivise. Il 27 maggio, a Napoli, Matteo Salvini dichiarava che “il premierato e l’autonomia rendono l’Italia un Paese un paese più moderno, più efficiente, più veloce, più meritocratico. L’autonomia dà più poteri agli enti locali e l’elezione diretta del presidente del Consiglio dà più peso al voto dei cittadini. Se un cittadino sceglie quel presidente, quella squadra, quella maggioranza e quel programma e se poi trenta parlamentari cambiano idea, non è cambia il governo, si torna a votare, penso che sia una riforma seria”.

Il premierato tanto caro a Giorgia Meloni diventa allora un bivio davanti al quale il Paese non può mostrare debolezza e indifferenza. I partiti di opposizione, gli intellettuali, i costituzionalisti, i movimenti e i cittadini di questo Paese non possono sottovalutare l’importanza di questo disegno e le menzogne rassicuranti di chi lo persegue. Ci aspetterà, quasi sicuramente, un referendum – come da articolo 138 della Costituzione – anche se Ignazio La Russa spiega che lavorerà in parlamento per permettere alla riforma di ottenere i due terzi dei voti necessari per evitarlo. Ignazio la Russa, il presidente del Senato che, come sempre, ignora con arroganza il ruolo istituzionale che riveste. Un classico del disprezzo che questa destra mostra per le istituzioni democratiche di questo Paese. Anche per quelle che ricopre, non certo gratuitamente.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org