Durante una delle sue tante apparizioni televisive, la premier Giorgia Meloni, sottolineava che il fatto che oggi la mafia sia meno visibile e abbia limitato gli attentati e la sua manifestazione più violenta, non significa “che non continui a fare i propri affari”. Una tautologia, la scoperta dell’acqua calda. Una delle tante affermazioni inconsistenti della premier sul tema del contrasto alle mafie. Affermazioni che peraltro suggerirebbero un’ulteriore domanda, naturalmente evitata dal giornalista titolare della trasmissione (tal Bruno Vespa) in cui Giorgia Meloni era ospite, vale a dire: “Cosa fate per contrastare questi affari meno visibili?”. Perché la tanto sbandierata antimafiosità della leader di Fratelli d’Italia, fino ad oggi si è rivelata solo sterile retorica.

Sin dai tempi della sua militanza giovanile, Meloni raccontava della sua passione per Paolo Borsellino e per la lotta alla mafia, ma viene il sospetto che tutto ciò fosse riconducibile più a una simpatia per le presunte idee politiche del magistrato ucciso in via D’Amelio, idee peraltro spesso strumentalizzate dalla destra italiana, incapace di valutare la complessità del pensiero del giudice e in ogni caso l’assoluta indipendenza da qualsivoglia ideologia nell’esercizio del suo prezioso lavoro. Fa sorridere, inoltre, la passione per Borsellino di una premier che ha vissuto la sua prima esperienza governativa, come ministro, nel governo di Silvio Berlusconi, nome che il giudice palermitano conosceva bene e sul quale i sospetti di un rapporto stretto con cosa nostra hanno trovato più di un fondamento nelle inchieste, nelle dichiarazioni di boss di primo piano e nelle vicende di Mangano e di Dell’Utri, rispettivamente stalliere e amico intimo del Cavaliere.

Fatta questa premessa, torniamo al punto principale. Può il sentimento antimafioso di Giorgia Meloni apparire credibile? O quantomeno, fino a che punto arriva? Perché non serve a molto dichiararsi tali se poi nelle scelte e nell’esperienza quotidiana tutto questo non si traduce in azioni. Il 23 maggio è appena passato e abbiamo ascoltato la solita quantità di parole, abbiamo assistito alle solite passerelle, alle frasi di circostanza, a quello che è un triste costume italiano, ossia la vuota commemorazione, il ricordo di quello che è stato, la celebrazione del dramma, del momento in cui tutto finisce e muore. Sia chiaro, è importante commemorare, ricordare quanto quel momento ci abbia cambiato come cittadini e come persone, sottolineare anche la spinta che quel terribile attacco alla nostra democrazia ha dato a un’intera generazione, che quel giorno, davanti alle macerie dell’autostrada sventrata, ha scelto di impegnarsi e di dare una direzione precisa alla propria vita.

Ed è questo il punto. Perché commemorare, ricordare è utile solo se poi quella memoria diventa esercizio quotidiano, etica, rinuncia di convenienze e scorciatoie personali, azione concreta. A maggior ragione quando sei un primo ministro e hai la possibilità di agire per cambiare qualcosa, per aumentare gli strumenti a sostegno dello Stato nella lotta contro le mafie. Esattamente l’opposto di quello che Giorgia Meloni e il suo governo stanno facendo. A partire dalla modifica al codice degli appalti, che di fatto ha diminuito i controlli e aumentato il rischio di infiltrazioni mafiose, soprattutto in un momento in cui, in virtù del PNRR, ci sono tanti progetti e soldi da gestire. A ciò si aggiungano le strette sulla libertà di stampa, che hanno un impatto notevole sull’informazione connessa a vicende giudiziarie nelle quali possono essere ravvisate connessioni con le mafie, o la cancellazione dell’abuso di ufficio o ancora la semplificazione delle regole del PNRR, ad esempio con la proroga dello scudo erariale voluta da Fratelli d’Italia. Misura, quest’ultima, sulla quale la Corte dei Conti ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, ravvisando peraltro il rischio di favorire corruzione e infiltrazione delle mafie.

Come se non bastasse, la nostra premier si è anche resa protagonista di una volgare uscita contro lo scrittore Roberto Saviano, accusato di essersi arricchito scrivendo di camorra, praticamente la stessa accusa mossa allo scrittore napoletano dai clan che lo minacciano. Questo non vuol dire naturalmente che Giorgia Meloni faccia favori alle mafie o sia mafiosa, ma che, come ha scritto lo stesso Saviano, è totalmente priva di conoscenza di quello che è il fenomeno mafioso, delle sue dinamiche e della sua capacità di agire e inserirsi nell’economia legale. E torniamo all’inizio, alla forma di antimafiosità della premier, una antimafiosità vuota e molle, retorica e priva di sostanza. Qualcosa che non si cura con una sfilata il 23 maggio, né con qualche ovvietà dichiarata a un giornalista amico e servile. Gli slogan con cui Giorgia Meloni ha riempito la sua battaglia di opposizione, conquistando la destra e il potere in un Paese sempre più allergico al pensiero critico e sempre meno abituato al voto consapevole, si sgretolano nelle contraddizioni di un governo pericolosamente incapace o lucidamente reazionario.

Due elementi che, sul piano della lotta alla mafia, diventano ancora più gravi, perché generano un insieme di provvedimenti, logiche e spazi che alle mafie risultano molto funzionali. D’altra parte, se l’obiettivo principale della strategia del governo diventa quello di colpire duramente e indebolire magistratura e informazione, accusati persino di complotti quando scoperchiano e raccontano sistemi radicati di corruzione che coinvolgono politici della destra italiana, non bisogna certo sorprendersi se il livello di attenzione e di lotta alla criminalità in Italia rischia di precipitare miseramente. E non bastano certo due slogan vuoti, qualche frase scontata e una commemorazione a risollevarlo. Perché è evidente, fatti alla mano, che anche sul piano della lotta alla mafia, con questo governo, mala tempora currunt.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org