Quando il nostro Paese era in piena pandemia e imparava sulla propria pelle il significato della parola lockdown, in molti ripetevano, come un mantra, che tutto sarebbe andato bene e che ne saremmo usciti migliori. L’impossibilità di incontrarsi, socializzare, vivere le consuete abitudini e la conseguente esigenza di relazione e di partecipazione erano vissute come un’assenza pesante, una mancanza incolmabile. Da quel periodo, per fortuna, l’Italia e il mondo sono venuti fuori, anche se sballottati dagli orrori delle guerre e dal peso di tutti i problemi che attanagliano la società contemporanea. Il punto è che, però, oltre a non essere andato affatto tutto bene, non ne siamo nemmeno usciti migliori. E non solo a livello di dinamiche geopolitiche, ma anche sul piano più interno. Dopo l’eroica rappresentazione di una sanità che reggeva nonostante i suoi atavici problemi, con tanto di promesse di intervento “riparativo” una volta passata l’emergenza, nulla è cambiato, anzi, la sanità pubblica viene costantemente umiliata e smantellata a vantaggio del privato. Stesso discorso per il clima, altro argomento ampiamente dibattuto durante il periodo pandemico, e per quella crisi che i governi continuano a non voler realmente affrontare.
Salute e clima, due aspetti che, peraltro, sono strettamente collegati. Due ambiti che necessiterebbero di investimenti e strategie, di ingenti risorse che, invece, si preferisce dirottare su armamenti e conflitti bellici. Davanti a chi si oppone a questo status quo, si schiera l’odiosa arroganza di chi aziona le leve del potere. Un’arroganza che si esprime con la criminalizzazione di tutto ciò che è dissenso, con la derisione nei confronti di chi porta avanti cause che sono legittime e colme di ragioni. Un atteggiamento sordo che può contare sul consenso di una parte dell’opinione pubblica, alla quale da anni viene lentamente iniettato il batterio della semplificazione, della relativizzazione di qualsiasi tema, dell’irascibilità verso coloro i quali provano a tenere alta l’attenzione sui diritti, tra i quali rientra anche quello al futuro, all’esistenza dentro un Pianeta nel quale possano ridursi sensibilmente le catastrofi e gli effetti nefasti su ambiente e salute prodotti dall’inquinamento.
Siamo in un’epoca nella quale il dissenso è ridotto al minimo, ormai orfano di una fetta generazionale che ha rinunciato o alla quale, nel passato, è stata tolta violentemente la voce. Siamo dentro un tempo di guerra, nel quale il pacifismo sembra un bisbiglio fuori moda, poiché non trova spazio sufficiente, non è più capace di prenderselo e di ritrovare quella spinta che lo ha reso influente nella seconda metà del secolo scorso. Si dice che mancano le ideologie, che il mondo è cambiato, che i giovani non si interessano più e non scendono più in piazza. I giovani, appunto, quelli che vengono raccontati come una massa dispersa e priva di coscienza, ingabbiata tra nuove tecnologie e disinteresse o, peggio, tra violenza e devianza. Eppure, se c’è una voce che prova ancora ad arrivare alle orecchie del potere, a bussare al portone blindato del palazzo, è proprio quella dei giovani.
Attiviste e attivisti, ragazze e ragazzi che si informano, leggono, si scambiano informazioni senza confini, usano la loro creatività, provano a farsi strada nonostante non abbiano un riferimento che sia uno. Né partiti, né sindacati, né leader o intellettuali capaci di visione e di empatia. Sono le generazioni che stanno cavalcando l’onda dell’instabilità e dell’odio che bagna il mondo. Sono le stesse generazioni che non ci puntano il dito contro per tutto quello che di orrido gli abbiamo costruito intorno, ma che semplicemente ci chiedono ascolto. Non hanno nulla in comune con le generazioni della contestazione degli anni ‘70 del Novecento, con quella spinta ideologica, con quella avanguardia culturale, ma con esse condividono il rifiuto per il modello di mondo che si trovano a vivere e che altri, dall’alto, hanno imposto e impongono.
Hanno paura per il loro futuro, sono cresciuti pensando che la natura sia una cosa da difendere, perché sono i figli di quelle generazioni che hanno sputato amianto, diossina, veleni industriali, abusivismo, terre dei fuochi. Chiedono che la salvaguardia del Pianeta diventi la priorità, perché a cascata porterebbe benefici alla salute, alla sicurezza delle città, all’occupazione, alla capacità economica dei cittadini, ai Paesi che sono attraversati dal dramma della desertificazione e della conseguente risposta migratoria. Lo fanno con civiltà, in modo pacifico e simbolico. In tutto il mondo. Bloccare una strada, infatti, non è certo una dichiarazione di guerra, non è una molotov, né una bomba. Bloccare una strada significa creare un piccolo disagio per avere attenzione da chi normalmente non ascolta, per pregiudizio, per indifferenza o per mancanza di tempo.
Certo, dà fastidio a chi si trova in mezzo al traffico e deve correre al lavoro o ad accompagnare i figli o a sbrigare qualsiasi altra esigenza quotidiana. Ma se non creasse disagio, chi ascolterebbe queste rivendicazioni? E inoltre, anche se si può sbuffare e ci si può arrabbiare, con quale diritto si pensa di scendere dall’auto e usare violenza verso questi ragazzi, insultarli o addirittura, come è avvenuto in Australia, sparare verso di loro fino a uccidere? È così che siamo usciti migliori dalla pandemia? Colpendo o spintonando degli adolescenti che manifestano per un diritto? O che decidono di colorare con una sostanza non nociva e lavabile un palazzo o una fontana?
Personalmente, ad esempio, non condivido neanche simbolicamente la scelta di colpire, anche se in modo non dannoso, le opere d’arte o i palazzi di pregio, ma ancor meno condivido la reazione repressiva e rabbiosa della politica. Soprattutto perché, tra quelli che reagiscono e condannano, e che oggi ricoprono ruoli istituzionali, ci sono gli eredi o perfino gli stessi protagonisti di un’epoca passata nella quale la protesta era miscela reazionaria e violenta, mirata a destabilizzare la democrazia.
E c’è di più, perché mentre questi ragazzi vengono insultati e derisi per il loro desiderio di vivere in un mondo migliore e meno inquinato, il governo italiano sceglie di scrivere importanti leggi in materia di inquinamento e di tutela ambientale nominando una commissione composta da membri che sono in buona parte legati proprio a gruppi imprenditoriali inquinatrici, come lobby petrolifere e del cemento. In poche parole, vogliono cambiare le normative sull’ambiente, facendosi dettare le norme da chi l’ambiente lo ha sempre martoriato. Ecco perché quelle ragazze e quei ragazzi hanno ragione. L’unico problema è che ad ascoltarli davvero sono in pochi. Soprattutto, politicamente.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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