100 passi e 45 anni dopo. Sono 2,22 passi ogni anno: 100 passi dove la rabbia e i ricordi si mischiano come le carte di un mazzo dove “la matta” non esce mai, nascosta nella manica di chi detta le regole del gioco. Conta e cammina: sono tanti 100 passi, ogni passo racconta la storia di un ragazzo e di quella generazione che sognava di cambiare il mondo. Ogni passo è stato un seme e qualche fiore è nato. Sono belli i fiori, non cambiano il mondo ma lasciano il profumo di chi ci ha provato in tutti i modi e ad ogni costo. Quarantacinque anni dopo, quel profumo è ancora intenso e ancora capace di contare e camminare insieme a lui, capace di sfidare i nuovi e tanti “Tano Seduto” che continuano ad avvelenare l’acqua dei pozzi di questo Paese. “La mafia è una montagna di merda” diceva Peppino Impastato. Compagno, antifascista e nemico della mafia. Lui, figlio di un mafioso, la mafia la conosceva bene e l’ha combattuta con la forza delle idee e del coraggio dalla sua radio fino alla fine, arrivata la notte del 9 maggio 1978, quando tutto il Paese parlava di Aldo Moro e nessuno, tranne i suoi compagni, si accorse che quel ragazzo che lottava contro la mafia veniva fatto saltare in aria.
Peppino aveva ragione, il letame attira le mosche da sempre, banchettano su quel letame e da esso traggono alimento e lo trasportano ovunque si posano. Ma anche le montagne possono cadere e le mosche si possono schiacciare. Radio Aut, la sua radio. La sua voce raccontava quello che tutti conoscevano ma che in pochi volevano ammettere: per paura, per calcolo o per sopravvivenza. Per chi la mafia non la incontra tutti i giorni è facile parlare di omertà, ma viverla e subirla in prima persona e sulla propria pelle, e magari averla in casa, cambia tutto. È in quel contesto che la storia e la vita di Peppino Impastato diventano una pietra d’inciampo della memoria, una tavola apparecchiata dove ogni invitato ha nome e cognome. Da quella radio Peppino raccontava “mafiopoli”. Raccontava quello che questo Paese, da sempre, finge di non sapere e di non vedere: le mani che soffocano la vita, le mani che decidono e contano i soldi, le mani della mafia che stringono quelle dello Stato, sprezzante e colpevole, che rinuncia al suo ruolo e nomina la mafia come reggente e supplente di se stesso.
Perché questo è, al punto che diventa impossibile capire se sia stata la mafia ad infiltrarsi nelle istituzioni o il suo contrario. Dalla strage di Portella della Ginestra, il 1º maggio 1947, la prima strage dell’Italia Repubblicana, l’assenza dello Stato in quanto tale è storia scritta: connivenze e silenzi, politici mafiosi o viceversa, affari e trattative. Emerge un dato di fatto indiscutibile: in Sicilia a pagare il prezzo più alto nella lotta alla mafia sono stati soprattutto i siciliani. Magistrati, poliziotti onesti, giornalisti, semplici cittadini. Nomi dimenticati dalle istituzioni, ma solennemente ricordati in occasione delle commemorazioni, autentico lavacro della coscienza di uno Stato che si manifesta a giorni alterni. La morte di Peppino Impastato è la maschera vigliacca di quello Stato che, fin dal primo momento, ha cercato in tutti i modi di occultare un assassinio di mafia. In poche ore, la morte di Peppino Impastato veniva presentata come quella di un terrorista vittima dell’esplosivo che lui stesso stava trasportando per preparare un attentato. Qualcuno arrivò persino a parlare di suicidio.
Era il 9 maggio 1978 e, qualche ora dopo la morte di Peppino, verrà ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana sequestrato dalle Brigate Rosse cinquantacinque giorni prima. Faceva comodo a tanti avvalorare l’ipotesi che Peppino Impastato fosse morto in quel modo: gettare fango sulle vittime e tessere subito la tela del depistaggio, una pratica che l’Italia aveva imparato a conoscere molto bene già da tempo. Sono gli uomini delle istituzioni, i Carabinieri che indagano e non prendono in considerazione la pista mafiosa, a costruire il depistaggio. A dare fiato a questa infamia sulla base delle prime ricostruzioni fatte dai Carabinieri si prestarono in tanti e, come tante altre volte, anche gran parte degli organi di informazione diedero il loro contributo: il Corriere della Sera, senza vergogna, scriveva in quei giorni di “Ultrà di sinistra dilaniato dalla sua bomba sui binari. All’ipotesi dell’attentatore si intreccia quella del suicidio”.
Solo il fratello Giovanni, la madre Felicia e i compagni di Peppino hanno gridato al mondo che Peppino non era un terrorista, ma era stato ucciso dalla mafia.
Ci sono voluti anni perché questa verità venisse finalmente dichiarata: la lotta contro i mulini a vento ha restituito a Peppino almeno la verità sulla sua morte con la condanna all’ergastolo del boss Gaetano Badalamenti. Allo stesso tempo, però, le indagini relative al depistaggio iniziale ad opera dei Carabinieri sono state archiviate definitivamente: le accuse di favoreggiamento e di falso ideologico sono cadute in prescrizione. Antonio Subranni, che all’epoca dei fatti con il grado di maggiore coordinò le indagini indirizzandole sul terrorismo, era stato promosso generale e comandante del Raggruppamento Operativo Speciale. Oggi, a 90 anni, è in pensione con il grado di generale di corpo d’armata.
“Fu sepolto come suicida il ragazzo di Cinisi. E lo ‘suicidarono’ tutti insieme: i mafiosi che lo avevano trascinato sui binari, i carabinieri che fecero finta di non vedere, i magistrati che non ordinarono accertamenti investigativi. Nessuno interrogò mai un mafioso, nessuno fece sopralluoghi nelle cave dei boss per cercare esplosivi, nessuno esaminò quelle macchie di sangue trovate dal necroforo comunale in un casolare. Il caso era chiuso. E il nome di Gaetano Badalamenti, l’uomo più potente in quell’angolo di Sicilia, non affiorò mai nemmeno su una vaga ‘informativa’”. Così scriveva nel 2002, 24 anni dopo, Attilio Bolzoni.
100 passi e 45 anni dopo. È cambiato qualcosa? Poco, troppo poco. La mafia è ancora forte, come tutte le mafie di questo Paese che quei “cento passi” non vuole proprio farli: si nasconde e aspetta sempre che sia qualcun altro a camminare. Ogni tanto capita una boccata di aria fresca, pulita. Ma è solo un momento, i tanti “Tano Seduto” di oggi trovano sempre il tempo e il modo di comandare e controllare il gioco. Sono cambiati i nomi, ma non è cambiato l’odore dei soldi e dei traffici, del potere mafioso che è sempre un potere di morte, che si regge sulla violenza e sulla connivenza con altri poteri. E lo Stato? La presenza dello Stato è tutta nella sua assenza: un’assenza che permette, che tratta, che concede molto in cambio di altro, un gioco delle parti che si garantisce a vicenda l’occupazione di quello spazio rubato alla dignità e alla libertà di donne e uomini veri.
100 passi e 45 anni dopo, la storia ci racconta che Peppino Impastato è ancora vivo nel cuore e nella memoria di tanti. Il tempo non restituisce nulla di quello che ha portato via ma può ancora permettere che un’idea continui a camminare, a gettare semi che un domani diventeranno fiori e ogni petalo sarà memoria e ci parlerà di un ragazzo che ha saputo ribellarsi ad un destino scritto da altri. Ogni petalo ci parlerà di una donna che si chiamava Felicia, una madre che ha continuato a dare voce e memoria a quel figlio rubato da bestie in camicia bianca e cravatta. A lei, Felicia, nel dicembre del 2000, la Commissione Parlamentare Antimafia ha consegnato la relazione che riconosceva e ribadiva le responsabilità di magistrati e forze dell’ordine nel depistaggio delle indagini sul “Caso Impastato”. A Cinisi, la “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” oggi è la Casa Museo, simbolo alla memoria di Peppino Impastato e di sua madre Felicia. Il fratello Giovanni e sua figlia, Luisa, sono i custodi e la continuità di quel seme lasciato da Peppino.
100 passi e 45 anni dopo, quella montagna di merda esiste ancora. Continueremo a raccontare la storia di Peppino, per noi stessi e per chi non ha fatto in tempo a conoscerlo ed ascoltare la sua radio. Continueremo a contare e camminare: in fondo sono solo “cento passi”. Ciao Peppino.
“Nato nella terra dei vespri e degli aranci,
tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio…
Era una notte buia dello stato italiano, quella del 9 maggio ‘78…”
(Modena City Ramblers – I cento passi)
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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