È il 24 febbraio 2022 quando le forze armate della Federazione Russa entrano nel territorio ucraino. Da quel giorno il conflitto russo-ucraino, un incendio che brucia dal 2014, non sì è più spento. In tanti hanno soffiato sul fuoco di quell’incendio fingendo di non vedere le prime scintille di quel 2014, in tanti hanno alimentato quei venti di guerra dove a pagare sono sempre e soltanto le popolazioni civili, i più deboli e quello che resterà delle generazioni che dovranno ricostruire sulle macerie. È la storia di ogni guerra che si ripete sempre uguale. Quel ‘900 che in molti pensavano fosse terminato con il crollo dei muri non è affatto finito: le ceneri della Jugoslavia nel cuore dell’Europa erano lì a dimostrarlo. Quel pensiero è stato il grande errore di un continente incapace di guardare oltre il velo che nascondeva nuovi regimi, nuovi confini e nuovi imperialismi che hanno avvelenato il pozzo più di quanto già non lo fosse. I fantasmi di ieri sono tornati, fantasmi mai davvero sconfitti.
E allora, quel secolo che si credeva finito è ancora fra noi, più lungo che mai, senza fine. Quel secolo che ha rimosso tutta la sua storia in fretta e senza dubbi, cancellando anche quegli ideali capaci di muovere il mondo, oggi si trova una volta ancora a fare i conti con fascismi, zar e sultani. La guerra in Ucraina è raccontata ogni giorno come nessun’altra guerra di cui questo mondo è pieno. Sono guerre dimenticate, che all’Europa sembrano lontane e per questo fanno meno paura. Questa paura è la parola che fa la differenza più grande: la guerra davanti al proprio giardino di casa è diversa, anche se è la stessa che l’Europa non ha voluto o saputo evitare, e in questa assurda incapacità – o precisa volontà geopolitica – l’Europa stessa ha trovato nella Nato un complice fondamentale. Ma ora la paura è più forte della necessità di un’analisi storica e politica del perché questa guerra sia vicina al suo primo compleanno. Verrà il tempo di quell’analisi, ma oggi la priorità è la ricerca di una pace che sembra lontana, quasi un’utopia.
In questa ricerca utopica, la politica europea compie l’ennesimo errore: affidare il ruolo di mediatore ad un uomo che, per la sua storia politica e per le sue idee, tutto è tranne che un uomo di pace: Recep Tayyip Erdogan. Il presidente della Turchia, il “Sultano” che sogna di restaurare l’impero ottomano ed è consapevole che per realizzare questo sogno servono risorse economiche e nuovi partner, alleati politici e militari. Per un uomo come Erdogan non è un problema cambiare tavolo e compagnia se questo gli permette, non solo di restare al potere, ma di estendere la propria area d’influenza. L’Europa è la sua carta e lui la gioca senza nessuno scrupolo, perché è quella vincente, quella della sua legittimazione. Innanzitutto, Erdogan ha ottimi rapporti con l’Ucraina, che lo hanno portato alla firma di un trattato di cooperazione militare prima ancora che la guerra con la Russia avesse ufficialmente inizio; inoltre, oggi sono di fabbricazione turca i droni usati dall’Ucraina.
La Turchia non ha mai riconosciuto la Crimea come territorio russo e ciò l’ha portata ad avere contrasti con la Russia stessa, in particolare riguardo a Siria e Libia. Ma la geopolitica e gli interessi comuni hanno presto trovato una soluzione: la Russia, per esempio, è il maggior fornitore di gas e petrolio utilizzati dalla Turchia e, tramite la sua azienda pubblica che si occupa di nucleare – la Rosatom – sta costruendo la prima grande centrale nucleare in Turchia. Gas, petrolio, nucleare: energia insomma, cioè il punto più alto della piramide di interessi che oggi condiziona il mondo.
La spregiudicatezza politica di Erdogan è tale da consentirgli ogni tipo di equilibrio politico e quella Turchia che qualcuno, anni fa, vedeva come il cane da guardia sull’Atlantico, oggi gioca su tutti i fronti: con la Nato e contro la Nato ma stando ben attenta a non rompere mai le relazioni con gli USA, con l’Ucraina e con la Russia. L’errore, ma forse sarebbe meglio dire il calcolo politico, dell’Europa è enorme. Anche l’Italia partecipa a questa legittimazione: il governo italiano, per bocca dell’allora Presidente del Consiglio, Mario Draghi, è passato dal definire Recep Tayyip Erdogan “il dittatore del quale abbiamo bisogno” (leggi qui), al ringraziarlo pubblicamente, pochi mesi dopo, per lo “sforzo di mediazione…”, ricordando e ribadendo che “Italia e Turchia sono partner, amici alleati” (leggi qui).
Uno, nessuno, centomila, le immagini dell’individuo raccontate da Pirandello come le maschere di Erdogan: mediatore di pace nella guerra fra Russia e Ucraina, vende i droni a Kiev ma al tempo stesso compra missili da Mosca, tiranno in Turchia e carnefice in Kurdistan, amico di tutti e di nessuno. Il prezzo più alto di questo trasformismo lo pagano il Kurdistan e le migliaia di profughi bloccati sul suo territorio e usati come arma di ricatto per l’Europa che, consapevole di questo, non chiede nessuna sanzione contro la Turchia. È il Kurdistan, però, la vera e grande ossessione del sultano: “Mentre gli Stati Uniti e la Russia sono distratti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vuole approfittare della guerra in Ucraina per perseguire la sua ossessione: cancellare qualsiasi possibilità che i curdi possano avere una terra da considerare loro”, sono le prime righe dell’editoriale scritto da Amílcar Correia sul quotidiano portoghese Públic. Impossibile contestare queste affermazioni: da sempre i curdi sono il bersaglio dei cannoni e dei suoi bombardamenti, e questa è solo una delle tante guerre dimenticate e ignorate dall’Europa.
Il 13 novembre scorso, l’attentato di Istanbul è stato immediatamente attribuito al Pkk che però non lo ha mai rivendicato. Subito è scattata la rappresaglia sul Kurdistan con l’operazione “Spada ad artiglio”. Erdogan non ha avuto nessun timore ad affermare che “se Dio vuole, presto li sradicheremo con i nostri carri armati, la nostra artiglieria e i nostri soldati”. La storia recente ci ricorda le pressioni, o meglio il ricatto, esercitato da Erdogan su Svezia e Finlandia al momento della loro richiesta di adesione alla Nato quando, in cambio del voto favorevole, imponeva ai due Paesi di non ospitare più rifugiati politici curdi e di consegnare alla Turchia decine di rifugiati considerati “terroristi”. In queste ultime ore la Svezia ha concesso l’estradizione di un membro del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk): si chiama Mahmut Tat, condannato dai tribunali di Erdogan per la sua appartenenza al Pkk. È un primo cedimento al ricatto. La storia del popolo curdo è quella di un popolo senza terra da sempre. Il Kurdistan è una nazione, ma non è uno Stato indipendente, perché non gli è mai stato permesso fin dalla fine della Prima guerra mondiale, quando i vincitori, prima promisero la nascita di uno Stato indipendente curdo con il Trattato di Sevres del 1920, e poi rinnegarono la promessa con il trattato internazionale di Losanna del 1923.
Questo popolo senza Stato e senza diritti è stato in questi anni il vero e principale avversario dello “Stato Islamico” jidaista. Ha pagato, con il proprio sangue, un prezzo altissimo in ogni campo di battaglia contro l’ISIS: a Mosul come a Kobane. Oggi Erdogan ha l’occasione di chiudere il discorso, nell’indifferenza dell’Europa. Nella Turchia di Erdoğan la libertà di espressione e di stampa sono un’utopia e anche pronunciare in diretta televisiva un nome sgradito al regime è un reato punibile. Capita, così, di essere licenziati fra il primo e il secondo tempo di una telecronaca di una partita di calcio dei mondiali in Qatar: il reato è aver pronunciato nome e cognome di un oppositore del regime, nel caso specifico quello di un ex-calciatore, anche se è stato il più grande della storia del calcio turco: Hakan Sukur (leggi qui).
Il secolo che si credeva finito è ancora fra noi, più lungo che mai. L’utopia è che possa finire insieme alla guerra nel giardino di casa e alle tante di cui non si parla, dimenticate sull’altare degli equilibri geopolitici. Pensare che questo possa succedere anche per merito del sultano di Istanbul non è solo un errore, è follia.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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