Siamo a Palermo. È il 1961. Il democristiano Salvo Lima è il sindaco della città. Vito Ciancimino è assessore ai lavori pubblici della giunta Lima. È il periodo del “sacco di Palermo”, dove un mostruoso boom edilizio stravolge la fisionomia architettonica della capitale siciliana. Durante il periodo in cui Ciancimino fu assessore ai lavori pubblici, delle 4000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome. Dietro i prestanome, cosa nostra. In quello stesso anno, un contadino, Vincenzo Modica, palermitano e padre di sette figli, coltiva, in affitto, un fazzoletto di terra che serve a mantenere la sua famiglia. Le cosche vogliono costringerlo ad abbandonare quella terra prima della naturale scadenza del contratto, ma Vincenzo si oppone. Non può farlo. La sua famiglia ha bisogno di quella terra e del suo lavoro. Vincenzo sfida le cosche e la politica, si oppone, a suo modo, al “sacco di Palermo”. Le cosche mafiose lo uccidono a colpi di lupara.
Nella terra sottratta a Vincenzo Modica sorge, oggi, parte del carcere Pagliarelli.

Dei sette figli del “contadino ribelle”, uno si chiama Emanuele. È deciso a vendicare la morte di suo padre. Lui, contadino figlio di contadini, vuole farsi giustizia. “Era il 1961. Dopo l’omicidio – ricorda Emanuele Modica –, ero determinato a vendicare mio padre. Avevo deciso di imbracciare il fucile e uccidere cinque o sei mafiosi. La rabbia era tantissima”, racconta in numerose interviste che si possono trovare anche in rete. Proprio mentre Emanuele coltivava propositi di vendetta, però, accade qualcosa che gli fa prendere una strada diversa: “Una notte sognai mio padre, seduto davanti a un cavalletto sul quale era appoggiata una tela bianca. Io ero alle sue spalle e lo guardavo stupito. Ma come, pensavo, tu contadino che hai maneggiato sempre la zappa, ti metti a dipingere? Lui si è girato, mi ha guardato e ha alzato il pennello in aria, un monito che voleva significare: ‘Lascia stare i fucili, il pennello è la tua vera arma. La cultura può fare moltissimo contro la mafia, la mafia può fare poco contro la cultura’. E in effetti è così: non si possono ammazzare tutte le persone che fanno cultura antimafia”.

Una vera e propria svolta: “Mi passò la depressione, sentii un coraggio enorme. Decisi di dedicarmi a promuovere la cultura antimafia con l’arte”. Le mafie, del resto, hanno da sempre avuto più paura dell’arte e della cultura che della giustizia. Da sempre le organizzazioni mafiose hanno il terrore delle attività creative e del senso di cittadinanza. Pensiamo a don Pino Puglisi e al suo impegno sociale ed educativo, alle fotografie di Letizia Battaglia, alle parole di Pippo Fava, a Peppino Impastato e alla sua Radio Aut, all’opera culturale, sociale e pedagogica di Danilo Dolci, alla musica di Rosa Balistreri, all’arte, appunto, di Emanuele Modica. La mafia va combattuta soprattutto con la formazione, la civiltà, l’erudizione, l’istruzione, l’educazione, la conoscenza, la sapienza, il sapere, la musica. Bisogna terrorizzarla e annientarla.

Emanuele Modica, nel lontano 1961, capì che la mafia si poteva combattere con l’arte. Dell’assassinio di suo padre ne diede notizia il quotidiano L’Ora e qualcuno, grazie a quel pezzo, si interessò per fargli trovare lavoro in un bar di via Calatafimi. Imparò il mestiere. “Negli scontrini che mi consegnavano i clienti, con due gocce di caffè, a seconda di quello che intravedevo, disegnavo uno schizzo. I clienti erano entusiasti e mi lasciavano laute mance. In un mese il loro ammontare superò addirittura lo stipendio. Ho lavorato otto-nove anni al bar, cosa che mi consentì di mantenere la mia famiglia”. Al bar dove lavorava cominciò ad esporre i primi tre quadri fino a quando, grazie ad una conoscenza, iniziò ad esporre in una galleria d’arte palermitana. Emanuele, però, non era contento. Decise allora di fare l’artista itinerante antimafia per le città e i paesi della Sicilia, andando in giro con una tenda, che costruì con le sue mani, dove poter esporre. Iniziò ad esser chiamato “il pittore della tenda”.

Espone la prima volta a Palermo, poi gira la Sicilia, tutta la Sicilia. Le cosche lo guardano con sospetto, comincia a dare fastidio, iniziano le minacce. Agli inizi degli anni Settanta porta le sue opere e la sua tenda ad Agrigento, in occasione della Sagra del Mandorlo in fiore, poi a Canicattì. Proprio a Canicattì accade un episodio che lo porterà a lasciare la Sicilia, come lui stesso racconta a Repubblica: “Il capo del paese era Don Peppino, un mafioso, certo. Mi si avvicina e mi fa: ‘Ma picchì ce l’avi contro la mafia?’. Ha ascoltato la mia storia e poi mi ha detto: ‘Tutto bello, ma proprio accà dovevi venire a rumpiri i cugliuna, a fare u discorso contro la mafia?’”. Il giorno dopo non è entrato nessuno nella tenda di Emanuele, che ha deciso così di partire e lasciare la Sicilia. Napoli, Aosta, Bergamo, Riccione sono solo alcune delle città che lo hanno ospitato. 

Anche in altre città alcune sue opere hanno suscitato perplessità, soprattutto una sua installazione: un manichino riverso a terra, in un finto campo, con i buchi sulla schiena provocati dalle pallottole dai quali sgorgano fiotti di sangue. Suo padre, insomma. “Coprilo!”, “Eliminalo!”, “Mettilo altrove!” , si è sentito ripetere spesso, anche nelle città del Nord. Di minacce di morte Emanuele ne ha ricevute: “Ho avuto paura, certo, ma allo stesso tempo provavo una forte sensazione di rabbia che mi stimolava ancora di più a continuare, perché significava che quello che stavo facendo funzionava”. Modica ha continuato a salire e scendere dalle scale, battere e togliere chiodi, spolverare la tenda fino al 2001, quando ha scelto di fermarsi sull’Appennino parmense e allestire lì la sua casa museo. Della sua vicenda parla il documentario “Il pittore della tenda – Un pennello contro la mafia”, diretto da Renato Lisanti e presentato in anteprima, nel 2018, a Bologna, in occasione del Biografilm Festival.

Nelle sue opere la mafia ha l’aspetto di una piovra. È così in “Omertà”, ad esempio, dove volti di individui con bocca serrata e occhi spalancati per la paura sono avvolti dai tentacoli di un’enorme piovra che dall’alto scivola su di loro. Ne “La Vedova”, invece, raffigura sua madre, un essere umano diviso, scisso, scomposto, una donna distrutta dal dolore. “Non potrò mai disegnare fiorellini o barche sul mare, devo attenermi a quella che è la mia esperienza di vita, a quello che ho dentro”. Prima del trasferimento definitivo nella casa museo in Emilia, ha voluto piantare un’ultima volta la tenda nella sua città, un ritorno doloroso di un uomo carico di anni, che nel 1961 aveva ventitré anni, ma era colmo di speranza: “Vado a Palermo per dare questa mia ultima testimonianza. L’ultima tenda, ecco, deve essere installata a Palermo”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org