Sarà l’onda lunga della pandemia, sarà la crisi economica, sarà l’angoscia per il futuro o sarà che il conflitto ormai è considerato vintage, tranne quando conviene, ma davanti all’ascesa di Giorgia Meloni al governo del Paese si respira, in molti commentatori, un sentimento di recondita fascinazione o di inspiegabile moderazione. La sua origine popolare, il suo essere riuscita, con una certa abilità politica, a conquistare il potere partendo da un partito persona con percentuali minuscole, il suo essere la prima donna a guidare l’Italia, sono diventati elementi utili a giustificare il rispetto assoluto anche da una parte degli avversari. Non di rado, infatti, si legge o si ascolta chi apprezza la statura politica della neopremier e, di volta in volta, aggiunge elementi diversi, per arricchire la sua figura, che diventa di colpo “non ricattabile”, “capace di decretare la fine del berlusconismo”, “sobria anche nella scelta del look”. E via dicendo. Insomma, se da una parte c’è chi prova terrore e addirittura teme per la democrazia, dall’altra c’è chi non resiste alla tentazione di un complimento o quanto meno di riconoscere qualcosa all’avversaria, a colei di cui non si condividono le idee, ma alla quale si attribuisce valore.

E così, come sempre in Italia, nasce la narrazione fiabesca del vincente. Come d’abitudine, mentre il perdente viene totalmente demolito, il vincente viene coccolato dalla retorica e dall’onore delle armi. D’un tratto sparisce la memoria delle sue azioni, delle sue parole, delle sue visioni del mondo e del futuro, della direzione verso cui vuole condurre il Paese. Eppure basterebbe poco per rendersi conto di quanto sia falsa la favoletta che viene raccontata su Giorgia Meloni. Basterebbe ricordare il suo passato, le sue frasi violente, come quelle contro le navi ong che andavano affondate, le tante volte che i suoi giovani oppositori sono stati messi alla gogna sui social e dati in pasto al fuoco dei militanti/odiatori da tastiera. Basterebbe ricordare la sua esperienza nel governo Berlusconi, quando si lasciò comandare e maltrattare da un personaggio al quale oggi mostra invece gli artigli, dopo aver però per anni difeso le sue condotte e avallato le sue menzogne. Basterebbe ricordare la sua vicinanza a personaggi come Orbàn, Steve Bannon, Marine Le Pen e ai nostalgici franchisti di Vox.

Ma non è solo il passato, lontano o recente, il problema. Anzi, il passato è solo una traccia che aiuta, se letta senza dimenticanze, ad affrontare e comprendere il presente. Il punto è quello che sta costruendo oggi Giorgia Meloni e con quale perseveranza. La sua abilità nello sfruttare una destra devastata dal declino del leader che l’ha rappresentata negli ultimi 30 anni e dai disastri di un’aspirante e incapace successore, ha portato nelle tasche elettorali di Meloni un consenso enorme per un partito minuscolo. A questo si aggiunga la sua immagine di persona risoluta e la memoria corta degli italiani, che sono capaci di vedere del nuovo laddove invece tutto è tremendamente vecchio, stantio, scaduto. Giorgia Meloni ha presentato la sua squadra di governo, con ministeri dai nomi nuovi e dai concetti tremendamente reazionari. Per di più, con ministri che, tranne qualche eccezione più tecnica, sono la rappresentazione più evidente di una idea di Paese che ci riporta terribilmente indietro.

Guardando la squadra del governo Meloni ci si rende conto di come in questa composizione di persone ci sia qualcosa di grottesco e tragico allo stesso momento. Partendo da Salvini, ministro delle Infrastrutture, che già incontra la Guardia Costiera per ricominciare la sua solita, estenuante guerra ai disperati, nella speranza che la gestione dei porti, intesi come approdo delle imbarcazioni, possa andare a lui e non al ministro del Mare, il redivivo Nello Musumeci. Poi tanti vecchi volti, che mai hanno prodotto nulla di buono in politica, come Daniela Santanchè, il ritrovato Raffaele Fitto, Anna Maria Bernini, Roberto Calderoli, Antonio Tajani. E poi tanti nomi discussi, come il prefetto Piantedosi, l’uomo che non riuscì a prevenire l’assalto neofascista alla CGIL di Roma, lo stesso che era già stato stretto collaboratore di Salvini, contribuendo alla scrittura degli orribili decreti dell’ex ministro dell’Interno, ministero che adesso Piantedosi andrà a guidare e che ha già iniziato a indirizzare verso la solita lotta alle ong e ai salvataggi in mare.

Insomma, si parla tanto di merito, al punto da dedicargli una voce di un ministero importante, ma non si capisce con quale merito e per quali competenze, ad esempio, Bernini sia stata scelta per occuparsi di Università e ricerca, oppure perché Sangiuliano, ex missino che poi ha legato la sua carriera giornalistica al giornalismo di parte e sopra le righe come quello di Vittorio Feltri, debba guidare la Cultura. E ancora non si comprende perché e in base a quali competenze Gilberto Pichetto Fratin sia stato chiamato a dirigere un ministero chiave come l’Ambiente, con per di più la consulenza del ministro uscente Cingolani. Chi le competenze le ha, invece, è il magistrato Carlo Nordio, ministro della Giustizia, ma la sua forte connotazione ideologica verso un garantismo estremista e usato solo secondo convenienza, il suo favore al ritorno al vecchio istituto dell’immunità parlamentare e la sua pessima visione degli strumenti e dei metodi della lotta alla mafia (leggi qui) non lasciano sperare nulla di buono. Anzi, esattamente il contrario.

Il punto peggiore, però, il governo Meloni lo raggiunge con Eugenia Roccella, Alessandra Locatelli e Giuseppe Valditara. La prima, ex militante femminista che si batté per il diritto all’aborto, poi diventata integralista cattolica con posizioni da ultras integralista su molti temi, si occuperà di famiglia, natalità (e qui l’associazione con le sue idee diventa spettrale) e pari opportunità. Chissà per chi saranno queste pari opportunità. Forse per le donne, madri, cristiane e italiane? Vedremo. La Locatelli, invece, si occuperà di disabilità, tema al quale ha dedicato anche parte del suo lavoro, ma chissà se ci si può davvero fidare di chi, da un lato si è spesa per i diversamente abili, e dall’altro ha fatto mostra di xenofobia e odio per gli stranieri, aggiungendo anche una personale e squallida guerra ai clochard a Como, con proposte shock, come il divieto di elemosina, la chiusura dei giardini comunali dopo le 18 e le idropulitrici per far andare via i senza tetto. Non proprio un curriculum di grande spessore, né politico né soprattutto umano.

Infine, Giuseppe Valditara, sovranista convinto e come tutti i sovranisti ossessionato dai migranti e dal tema razzista del loro presunto impatto negativo non solo sulla società attuale ma perfino su parti importanti della storia dell’uomo. Farneticazioni che gli sono valse il ministero dell’Istruzione. E del Merito, appunto. Insomma, questa è la squadra che dovrebbe risollevare il Paese dai problemi serissimi nei quali è piombato. Questa è la formazione scelta dalla tanto osannata, capace, non ricattabile, bravissima, prima donna al potere, che si è fatta da sola, che viene dal basso, Giorgia Meloni.

Si dice che il tempo sia galantuomo, solo che ci tocca sperare di avere torto, perché qui in gioco ci sono il futuro del Paese e tantissimi diritti che rischiano di essere schiacciati. E non ci sarà più tempo, poi, di tornare indietro e riparare all’ennesimo bluff di una politica che ha sputato fuori le idee, le visioni e le priorità, per affidarsi ogni volta alla figura del momento e al suo partito-persona che, come è naturale, sistematicamente fallisce. Lasciando sulla pelle della nazione molti graffi e pochi cerotti.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org