Rosalia “Lia” Pipitone, giovane donna e madre palermitana, viene uccisa da alcuni sicari nel 1983 perché ritenuta colpevole di adulterio. Un’onta imperdonabile per quegli ambienti retrogradi e criminali. La verità, però, è che al padre di Lia e agli ambienti mafiosi desse fastidio il fatto che Lia fosse una donna libera, che sognava una libertà che invece è stata barbaramente spezzata quando aveva appena 25 anni. Una vittima di mafia, senza ombra di dubbio, ma non per tutti. Nonostante diversi processi e condanne, infatti, abbiano confermato che si sia trattato di un omicidio architettato da cosa nostra, per lo Stato, Lia Pipitone non può essere ritenuta vittima di mafia, in quanto non avrebbe i necessari “requisiti soggettivi”. Un’ingiustizia che assume tutte le caratteristiche di un paradosso all’italiana e che si tramuta in un pericolo per il figlio, Alessio Cordaro, l’unico familiare ad aver denunciato il tutto, scegliendo di vivere, senza scorta, sempre a Palermo.
Ma procediamo con ordine. Il 23 settembre 1983, a soli 25 anni, Lia Pipitone viene uccisa nel corso di quella che, successivamente, la giustizia avrebbe scoperto essere una falsa rapina. Vale a dire, una rapina inscenata per camuffare la verità nascosta dietro l’omicidio. Cosa che è effettivamente riuscita, dato che né la polizia né i carabinieri dell’epoca si degnarono di andare a fondo sull’accaduto. Ma perché Lia avrebbe dovuto pagare un prezzo così alto? Il movente è uno solo: la donna, da tempo in rotta col marito, avrebbe instaurato una relazione con un altro uomo. Un affronto che, per il padre Nino Pipitone, boss dell’Acquasanta e vicinissimo ai massimi esponenti di cosa nostra, non poteva passare inosservato.
Il sogno di libertà di Lia era considerato un’offesa talmente grande da spingere lo stesso padre a dare il benestare all’omicidio, per obbedire a un codice di onore, quello mafioso e nello specifico del clan Galatolo, che non accettava che una donna potesse rivendicare il diritto a essere libera e indipendente. Cosa che Lia era sempre stata, sin da ragazzina. Lia amava la musica, il mare, la vita e, per sottrarsi alla mentalità becera del padre, era già scappata una volta da casa con quello che sarebbe diventato poi suo marito. La nuova azione di ribellione di Lia, che consisteva nel poter uscire da sola e poi, ormai in rotta con il marito, andare a vivere da sola, aveva provocato lo sdegno del padre, irritato dalle voci che giravano nel quartiere circa la frequentazione con un altro uomo. Così, scatto la questione d’onore, ossia la barbarie, e venne inscenata la rapina.
Il giorno dopo l’omicidio, sul balcone di casa venne trovato il corpo di un uomo, Simone Di Trapani, amico e lontano parente di Lia, costretto a scrivere una lettera d’addio in cui annunciava di uccidersi “per amore”. Una finzione realizzata ad hoc per evitare che si parlasse di mafia. Le indagini degli inquirenti e il coraggio del figlio, Alessio, hanno consentito nel tempo di andare alla ricerca della verità, facendo emergere la relazione di Lia con Simone Di Trapani e svelando la messinscena del clan. Proprio di recente la Cassazione ha confermato le condanne a 30 anni per i boss di cosa nostra Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo, rei di aver ordinato l’omicidio con il consenso del padre di Lia.
Condanne che sono state rese possibili non solo grazie all’egregio lavoro degli inquirenti, ma anche grazie alle confessioni di diversi pentiti di mafia, tra cui quella di Francesco Di Carlo, secondo il quale “Lia era nata per la libertà ed è morta per la sua libertà”. “Fu omicidio per onore”, avrebbe invece confessato Rosario Naimo, anch’egli ex mafioso, che aggiunge che “si sapeva che la figlia del signor Pipitone tradiva il marito” e per questo venne deciso di ucciderla.
Come accennato, però, nonostante le condanne abbiano confermato che si sia trattato di omicidio mafioso, per il ministero dell’Interno, Lia Pipitone non è vittima di mafia. A denunciarlo ci ha pensato proprio il figlio di Lia, Alessio, il quale, grazie all’aiuto del giornalista Salvo Palazzolo, ha potuto tracciare per iscritto la propria esperienza e la vita della madre nel libro Se muoio sopravvivimi (Melampo editore). “Mia madre continua a essere una vittima di serie B – scrive Alessio nel suo libro – nonostante i giudici abbiano scritto parole chiarissime”. Secondo Palazzolo, inoltre, “per trent’anni, lo Stato ha archiviato il caso come una rapina finita male: una messinscena che non insospettì la polizia”. Per il giornalista qualcosa che fa pensare male, dato che “le ultime indagini sull’omicidio raccontano che il clan dell’Acquasanta teneva rapporti con ambienti deviati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, in quel quartiere i Galatolo custodivano la base operativa da dove partivano i sicari di Riina per gli omicidi eccellenti”.
Come se non bastasse, al figlio di Lia Pipitone è stato anche detto “che la richiesta di risarcimento è arrivata fuori termine”. Un paradosso italiano, dicevamo, che rischia di far perdere fiducia nelle istituzioni, specialmente a chi da quelle stesse istituzioni si è sentito abbandonato. “Per qualcuno sarei dovuto andare via, perché chi subisce una situazione frutto di un atto criminale o mafioso dovrebbe scappare via”, ha ammesso il figlio di Lia. “Non è così, io non ho nulla da nascondere – ha affermato – e il fatto di non lasciare il territorio è la dimostrazione che io resto qui per lottare e per non dargliela vinta”. Parole forti, piene di coraggio e speranza. Parole che non possono e non devono essere lasciate al vento, ma alle quali va dato ascolto. Alessio Cordaro merita una risposta concreta. Per il suo coraggio e per la memoria di sua madre Lia, che inseguì con coraggio e a testa alta il suo sogno di libertà.
Giovanni Dato -ilmegafono.org
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