La vicenda delle telefonata tra il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, e l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nel processo sulla famigerata trattativa Stato-mafia, ha tirato dentro il presidente Napolitano, aprendo una polemica asprissima tra le forze politiche. Una polemica che, come spesso accade in Italia, con i suoi toni aspri finisce quasi per nascondere la sostanza. E la sostanza, invece, è ciò che non si può e non si deve nascondere, soprattutto quando ci si trova di fronte ad una delle vicende più importanti della storia del nostro Paese. Non interessa qui stabilire l’esistenza di eventuali responsabilità di Napolitano, il quale ha reagito agli attacchi parlando di insinuazioni e di “interpretazioni arbitrarie e tendenziose e talvolta perfino manipolate”, quello che interessa è cercare di capire se l’azione del consigliere D’Ambrosio possa essere considerata “corretta” e “ispirata soltanto a favorire la causa dell’accertamento della verità”, come ha sottolineato lo stesso Capo dello Stato.

In un momento cruciale per le indagini sulla trattativa del 1992-93 tra parti dello Stato e cosa nostra, non si può relegare una vicenda così grave e significativa al terreno dello scontro tra forze politiche, divise tra chi, come Di Pietro, chiede una commissione di inchiesta e sostiene che nessuna carica dello Stato è al di sopra della legge, e chi invece reagisce con stizza, difendendo a prescindere l’operato e l’integrità del Quirinale. La solita politica degli ultras e delle fazioni, degli attacchi e delle difese, una trasposizione calcistica che attira l’attenzione dell’opinione pubblica, mettendo in secondo piano quello che è l’oggetto del contendere, quelli che sono i fatti e i protagonisti,  vale a dire le telefonate tra Mancino e D’Ambrosio.

Una vicenda complessa che si inserisce nell’ambito di un’indagine difficilissima, complicata, fatta di riscontri, di ammissioni e ritrattazioni, contraddizioni, vuoti di memoria ed improvvise reminiscenze. Nicola Mancino era il ministro dell’Interno durante il periodo delle stragi. Per anni ha negato l’esistenza di un incontro tra lui e Paolo Borsellino, dal quale il giudice uscì infuriato, sconvolto. Poi ha parzialmente ammesso l’esistenza di quell’incontro. Per non parlare delle numerose contraddizioni emerse durante le audizioni e il confronto con Claudio Martelli e con l’ex ministro dell’Interno, Scotti, a cui Mancino subentrò il 28 giugno del 1992, poco dopo la strage di Capaci e poco prima di quella di via D’Amelio. Un avvicendamento rispetto a cui le versioni dei due ministri coinvolti sono discordanti.

Per tutte queste contraddizioni, discrepanze e mezze ammissioni, Mancino è indagato per falsa testimonianza. I pm sospettano che egli abbia giocato un ruolo determinante nella trattativa intavolata con la mafia, della quale Paolo Borsellino aveva scoperto l’esistenza e per la quale, con tutta probabilità, è stato ucciso. Adesso dalle nuove intercettazioni pubblicate in questi giorni si  scopre che l’ex ministro avrebbe chiesto aiuto a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, per essere tirato fuori dall’inchiesta della procura di Palermo, che lo coinvolge e lo incalza. Una richiesta di aiuto che D’Ambrosio accoglie, tirando in ballo non solo il Capo dello Stato, ma anche la Cassazione e il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, il quale, a quanto pare, avrebbe stoppato il tentativo di avocare l’inchiesta dei pm palermitani.

Una brutta storia, un tentativo di interferenza su cui bisogna far luce il prima possibile e rispetto a cui è necessario individuare le responsabilità, attendendo poi le conseguenze di tale verifica. Antonio Di Pietro, che, all’epoca della trattativa, era magistrato e fu indicato come uno degli obiettivi sensibili di cosa nostra, oltre a chiedere una commissione parlamentare di inchiesta e a presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia, Severino, per ottenere un’ispezione presso la procura generale della Corte di Cassazione (richiesta respinta dal ministro), attacca duramente affermando: “O i due consiglieri hanno millantato, ovvero dicevano a Mancino di parlare a nome del presidente della Repubblica, oppure Napolitano sapeva: nel primo caso Marra e D’Ambrosio devono dimettersi, nel secondo caso il presidente della Repubblica avallava tale azione e dunque deve spiegare”.

E ancora: “Tutti vogliamo rispettare il Capo dello Stato. Ma devono spiegare per quale ragione un personaggio politico che ha presieduto il Senato e il Csm tenti di fuorviare il confronto con dei testi. Nessuno si deve sentire offeso: c’è invece la necessità di dare una mano agli inquirenti che stanno cercando la verità”. Già, la verità, l’unica cosa che conta. La condotta di Napolitano, nella vicenda, appare lineare, ciò che invece non appare altrettanto lineare è l’attività del suo consigliere D’Ambrosio, dunque un personaggio del suo entourage, un uomo che lavora per il Colle.

Ed allora, piuttosto che difendere tout court la correttezza dei propri collaboratori, sarebbe più saggio avere maggiore cautela e verificare, così eventualmente da chiederne le dimissioni e, come dice Di Pietro, aiutare in tal modo chi indaga su una vicenda delicata e fondamentale per la storia e il futuro del nostro Paese. Perché le ombre che ricoprono quella fase politica, le  responsabilità, i depistaggi, i silenzi sono il marchio più pesante della connivenza tra mafia e Stato, costituiscono una muraglia grigia che, però, comincia finalmente ad essere squarciata. Ed ogni volta che si apre un piccolo squarcio si sente  tremare l’intero castello, segno che nelle camere del potere alloggiano ancora tanti inquilini nascosti tra omissioni, silenzi e paura di essere ormai vicini al giorno del giudizio.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org