Due anni fa, di questi tempi, il mondo stava pienamente entrando nell’incubo della pandemia da Covid-19. Tra incertezze e timori, i governi iniziavano, con approcci più o meno diversi, a fare i conti con le conseguenze della diffusione planetaria del virus. Il resto è storia ormai nota. Due anni intensi che hanno cambiato le dinamiche politiche e democratiche di moltissimi Paesi, i quali hanno adottato misure drastiche per contenere i contagi, oltre a predisporre strumenti mirati a contrastare la crisi economica e sociale determinata dai lockdown. Ora che le campagne di vaccinazione hanno indebolito la violenza del virus, che è ancora presente e letale, ma meno aggressivo sul piano degli effetti gravi sulla salute, e si discute di riaperture totali, superamento del green pass e di altri temi connessi alla pandemia, l’Europa e il resto del mondo si ritrovano a dover fronteggiare il rischio di un conflitto che potrebbe avere ripercussioni globali.
Putin e la Russia scelgono di mettere in atto una prova di forza per sfidare la Nato e gli USA e cercare, dopo anni di tentativi e strategie di sfiancamento, di recuperare l’antico status di potenza mondiale. Certo non un fulmine a ciel sereno, visto che la strategia del leader russo va avanti da anni e sfrutta anche i tanti errori, di debolezza e diplomatici, commessi dall’Europa e dai suoi Stati nei confronti dei russi. Difficile rimediare adesso e Putin lo sa. Per questo estremizza la situazione a suo vantaggio, assegnando all’Europa il ruolo più delicato. Dalla risposta che gli europei daranno sulla vicenda Ucraina, infatti, dipenderà la credibilità dell’UE e, nel caso, la scelta di un conflitto che travalichi i confini di Kiev. Insomma, sarà tautologico ribadirlo, ma da questa pandemia non stiamo uscendo affatto bene come qualcuno sperava ai suoi albori. Non solo in politica estera.
Anche guardando l’Italia, infatti, la situazione è poco consolante. Siamo immersi ancora nella palude di una politica che gioca a braccio di ferro, scaricando sull’azione di governo le dinamiche dei partiti e delle (potenziali) coalizioni, secondo una visione che è più proiettata su logiche elettorali che su quelle di tutela dell’interesse collettivo. Lo stesso governo continua ad agire come se fosse in piena pandemia, con un atteggiamento emergenziale che appare sempre più uno strumento per difendere la stabilità del Paese dalla nevrotica e irresponsabile agitazione di alcune forze politiche. Una manifestazione di debolezza che è il frutto di un governo nato male, con la coesistenza di forze che difendono interessi spesso opposti o, comunque, si rivolgono a gruppi di elettori molto diversi tra loro. Il premier Draghi gioca il ruolo del professore che fatica a tenere a bada la classe, ogni tanto alza la voce, ne parla con il dirigente scolastico (Mattarella) e poi, la volta successiva, quando tutto sembra essersi calmato, si ritrova nuovamente a sbraitare.
La politica sta lentamente logorando il non politico. Era prevedibile. Sono dinamiche scontate, ma sono anche conseguenza di un’azione di governo insufficiente. L’ossigeno che tiene in vita questo esecutivo scomposto e litigioso è sempre stato fornito dall’emergenza pandemica e dalla necessità di non perdere i fondi del PNRR, decisivi per la ripresa di un Paese nel quale, la politica da sola, non sembra avere l’autorevolezza e l’affidabilità per gestire questi fondi senza i soliti vizi e i soliti rischi. Draghi è stato scelto come elemento di garanzia soprattutto agli occhi delle istituzioni europee, per la sua storia e il suo status. Ma non può bastare. Perché di politica c’è ancora bisogno. Di una buona politica che, a differenza dei tecnici o dei banchieri, è necessariamente dotata di visioni e idee che provengono anche dalla conoscenza dei problemi dei cittadini e delle esigenze loro e dei loro territori. E in generale da uno sguardo complessivo sulla società.
Il problema è che l’Italia attuale è stretta tra la tecnica algida e dallo sguardo vetusto e la politica dinoccolata, scadente e sterile che da anni la rappresenta, dentro ogni schieramento. Così, mentre la pandemia inizia pian piano a dar tregua, la politica è ancora ferma. Litiga per piccole guerre di posizione, spesso attraverso la voce di leader minuscoli e arroganti, si arrocca su posizioni superate, ad esempio predisponendo piani industriali che puntano ancora sul fossile e ignorano il progresso del mondo verso le rinnovabili, o continuando a foraggiare Paesi canaglia e gruppi criminali internazionali pur di fermare gli arrivi dei migranti. E continuando a non agire su sanità pubblica e scuola, che la pandemia ha indicato come i due ambiti di fondamentale importanza sui quali puntare.
Invece siamo ancora nel guado. Trincerati dietro l’emergenza sanitaria, allungando il più possibile il periodo di stasi per far passare nel frattempo provvedimenti che sanno di stantio, di passato. Intanto il mondo corre e inciampa su un conflitto annunciato, con una tensione che precede ampiamente lo scoppio del Covid. Un po’ come se il tempo non fosse mai veramente trascorso, anche se in realtà questi due anni li abbiamo vissuti tutti, appieno, talvolta con la speranza, coltivata in mezzo al buio e al dolore, che le difficoltà e la necessità di affrontarle insieme ci avrebbero spinto verso il futuro, un futuro diverso, dove la politica e la coscienza civile potessero tornare a occuparsi del mondo con uno spirito più umano e politico, nel senso nobile del termine.
Una speranza tradita. Che per fortuna però, visto il livello basso dei personaggi ai quali affidarla, non si è ancora trasformata in disillusione, assumendo più i tratti di una presa di coscienza, che non è collettiva, certo, ma c’è, o almeno sembra esserci. Vedremo dove ci porterà quando si potrà definitivamente tornare alla normalità. Quando si potrà tornare nuovamente in piazza per rivendicazioni più serie di quelle di complottisti, comici in declino e no vax. Quando si potrà nuovamente tornare a parlare di problemi e urgenze reali.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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