La barbara uccisione di Adil Belakhdim, sindacalista travolto a Biandrate (Novara) da un camion che ha forzato il presidio dei lavoratori davanti alla Lidl, è molto di più di un atto individuale. Sul piede dell’assassino che ha spinto sul pedale per forzare il blocco, c’è la forza violenta di una logica che si scatena da tempo contro chiunque provi a lottare per diritti sacrosanti. C’è l’odio rappreso e grumoso nei confronti dei lavoratori che alzano la testa. C’è il fastidio per chiunque si metta di traverso rispetto all’impresa, che sia essa individuale, piccola, media o che sia multinazionale. Chi reclama per difendere una giustizia sociale ridotta a brandelli oggi viene osteggiato da chi ha nutrito, diffuso e assorbito la cultura del “profitto prima di tutto”, costi quel che costi.
Adil Belakhdim non è la vittima di un episodio isolato, di un raptus criminale, ma di almeno un trentennio di martellate sui diritti, di riforme al ribasso e di modelli perversi di un capitalismo in crisi e, pertanto, ancora più feroce, egoista, spietato. La morte di Adil avrebbe dovuto scatenare la reazione di un intero Paese, di cittadini, sindacati confederali, lavoratori di ogni settore e non solo quelli della logistica o di alcune sigle che, ogni giorno, soprattutto in certi ambiti, presidiano e combattono, facendo sindacato attivo mentre altri si trastullano dentro logiche politiche o di divisione del potere. L’uccisione di Adil dimostra quanto sia fortemente necessario, ancor più di prima, il ruolo del sindacato, quanto sia fondamentale e imprescindibile la sua presenza. Un concetto che va ribadito non solo alle imprese, a partire dai grandi gruppi, ma anche agli stessi sindacati confederali, spesso troppo lontani, morbidi, distratti. Soprattutto dovrebbero comprenderlo le forze politiche, i leader che da anni dimenticano i lavoratori, disertano le lotte diffuse in molte parti del Paese e in tanti settori della sua economia.
Non servono le parole, né il cordoglio. Non serve l’indignazione postuma. Serve rivedere il sistema del lavoro in Italia, serve tagliare i ponti con le logiche che, in questi ultimi 30 anni, hanno umiliato i diritti dei lavoratori, li hanno svenduti, indeboliti, frantumati. Del lavoro ci si è dimenticati, se non quando si è scelto di dar vita a leggi nocive volte ad aiutare le imprese ad avere più mano libera, più libertà di movimento. Al mondo imprenditoriale sono stati riconosciuti incentivi, fiscalità vantaggiose, maggiori possibilità di licenziamento, tutto senza che ciò fosse bilanciato da ulteriori garanzie per i lavoratori, nuovi ammortizzatori sociali, strumenti di ispezione e controllo sul rispetto del diritto del lavoro. Buona parte delle aziende ha ottenuto vantaggi restituendo poco o nulla a livello di stabilità, regolarità contrattuali, riconoscimento dei diritti. Anzi, il sentire comune, quello che politicamente un tempo cercava di conquistare il consenso del lavoratore, rappresentato per decenni da operai e braccianti, ha cambiato direzione.
I lavoratori, che nel frattempo hanno perso i loro contorni di classe e hanno visto nascere altre figure legate alle nuove professioni, spesso precarie e senza un chiaro riferimento normativo, sono diventati il problema, il nemico, il tappo allo sviluppo, al progresso collettivo. Sono stati dipinti negativamente, dentro una narrazione distorta che ha rovesciato le responsabilità. Rapidamente, così, il freno all’economia, all’occupazione, alla crescita non è stato più individuato nella corruzione, nelle strategie sbagliate delle imprese, nella mancata redistribuzione della ricchezza e delle opportunità da parte di un mondo imprenditoriale sempre più individualista, né nel rapporto promiscuo e carezzevole tra politica e imprese, né tantomeno nei tradimenti o nei ritardi colpevoli di parte del sindacato.
Nulla di tutto questo. Il problema è diventato il lavoratore, il suo costo, non solo in termini economici ma anche di diritti da riconoscere. Nell’attuale sistema capitalistico in crisi, dove vince chi risparmia di più ed è più veloce, i diritti e i compensi sono un fastidio, qualcosa di cui, per molti, sarebbe bello liberarsi. Così come sarebbe bello liberarsi dei sindacalisti rompipalle che, in queste settimane, sono stati oggetto di violenze, aggressioni squadriste, agguati. Di Adil sono riusciti a liberarsi e senza nemmeno troppi problemi. Perché alla fine cosa è accaduto? Un uomo è stato ucciso, la famiglia potrà solo piangerlo e aggrapparsi alla speranza di giustizia, i sindacati di base continueranno a protestare, spesso da soli e sottoposti alle ritorsioni di aziende di ogni dimensione, il segretario della Cgil ha rilasciato un’intervista piena di buoni propositi, alcuni ministri, il premier, esponenti politici vari hanno espresso il loro sdegno e recitato le loro promesse. Nient’altro.
Da domani i lavoratori continueranno a subire atti violenti, a morire sul lavoro o mentre il lavoro lo difendono. A morire nell’indifferenza di un Paese e di una cittadinanza che, in gran parte, non si scompone e non scende in piazza, continuando sottovoce a ritenere i lavoratori un problema e i sindacalisti di lotta dei sovversivi o dei rompicoglioni. Le imprese continueranno a risparmiare sui diritti, a tagliare sui lavoratori, a considerare il lavoro quasi come un regalo e non come parte di uno scambio, a pretendere che ci si accontenti di paghe misere, di turni massacranti, senza pause, senza orari. A pretendere il silenzio e l’accettazione. Proprio come quelli che il popolo italiano in gran parte assicura, rimanendosene chiuso nel proprio recinto anche davanti a un evento di tale portata.
Un popolo farcito di cittadini che, finché qualcosa non li tocca direttamente, se ne stanno buoni, quasi narcotizzati, sempre disposti in qualche modo a perdonare chi sta in alto, senza mai davvero puntargli un dito contro, preferendo invece spingere, con la propria complice inerzia, il piede sulla schiena degli ultimi, degli sfruttati o di coloro i quali li difendono e pretendono diritti. Come Adil, un altro nome che la coscienza di questa nazione dimenticherà in fretta. O forse ha già dimenticato.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
Il sapore della verità è amaro e invita ad allontanarla dalla bocca della nostra coscienza. Ma allontanando la visione cruda ma vera di ciò che accade non concludiamo niente. Massimiliano continua ad avere intatta la capacità di guardare la realtà e le ragioni di ciò che accade senza riuscire mai a voltarsi dall’altra parte. C’è chi potrebbe chiedersi: a che pro ? Io credo che al fondo lo spinge il “principio speranza”. Secondo alcuni, come il filosofo Vattimo, la speranza è solo una fregatura e deresponsabilizza la gente in quanto ci porta a desiderare un intervento esterno alla storia e collocato nel futuro che ci salva tutti, mentre invece dobbiamo trovare in noi stessi la capacità di farci ingaggiare dagli avvenimenti qui ed ora e di costruire con fatica qualcosa di nuovo. Vabbè……………… la speranza è ben altra cosa ed è come una garanzia di genuinità che autentifica un impegno per l’uomo e per la casa comune che è la Terra. La speranza non ci invita a fotografare la realtà per quello che appare sul palcoscenico della storia e poi consegnarla all’utopistica provvidenza di un Ente superiore che vive nel futuro mentre noi siamo consegnati a un duro e dispotico presente. Piuttosto, la speranza che vedo io e che circola nelle arterie degli scritti di Massimiliano è una invincibile certezza che “questa” che vediamo non è la verità. L’uomo è un’altra cosa, del tutto non-disponibile agli appetiti dei mini-padri-eterni. La Terra è un’altra cosa. Le relazioni tra gli esseri umani e tra le aggregazioni umane sono un’altra cosa. In poco tempo si sono sfaldati i miti del moderno, del postmoderno. Sta cambiando la percezione che abbiamo di noi stessi. L’ultima religione, quella tecnologica, ha già il fiato corto. Vediamo in giro solo le macerie di diritti spezzati, istanze frantumate, ideali evaporati. Ma tutto questo non mi sembra accadere sotto il segno della negatività: sta nascendo qualcosa di nuovo, siamo di fronte ad un cambiamento di epoca. C’è bisogno di gente capace di “vedere”, analizzare, criticare, mantenere la memoria della preziosità dell’umano e delle creature con cui condividiamo questa casa comune. C’è bisogno di persone che siano coscienti della propria individualità e non deleghino a dogmi o ideologie o intruppamenti la fatica di assumersi l’onere di agire secondo scienza e coscienza. C’è bisogno di persone capaci di chinarsi su un cadavere, scoprirne il nome, sentire sentimenti di pietà, sentire la responsabilità a cui quel morto ci richiama.