“La politica non ha posto nello sport”, ha detto il premier ungherese Viktor Orban. Parole usate per commentare i fischi dei tifosi magiari nei confronti dei calciatori dell’Irlanda del Nord, i quali avevano scelto di inginocchiarsi in segno di protesta contro il razzismo, prima del fischio d’inizio di una amichevole giocata a Belfast, prima dell’Europeo. Una iniziativa di solidarietà alla lotta antirazzista del movimento Black Lives Matter, alla quale molte squadre e federazioni nazionali hanno aderito. L’Ungheria no. Così come Scozia e Croazia. Mentre gli irlandesi si inginocchiavano e i magiari rimanevano in piedi, dunque, i tifosi ungheresi addirittura fischiavano il gesto. Occasione perfetta per il sovranista Orban per sciorinare un po’ di propaganda nazionalista ed etichettare come politico quello che prima di tutto dovrebbe essere considerato un gesto di civiltà.
Per il premier della destra ungherese, la lotta al razzismo non dovrebbe avere spazio nello sport, che di per sé è il simbolo della fratellanza. Il ripudio del razzismo non viene visto, pertanto, come un valore che tutte le forze politiche dovrebbero considerare irrinunciabile, ma come una minaccia politica, una questione di parte. A questo orribile concetto, Orban aggiunge pure un po’ di fiero nazionalismo, affermando che gli ungheresi si inginocchiano solo davanti a Dio, alla patria o quando fanno una proposta di matrimonio. Dio, patria, famiglia. Concetti vecchi che tornano sempre buoni per riempire lo stomaco del popolino e stuccare e ridipingere le pareti sporche e scrostate di un patriottismo ipocrita e bugiardo. Li chiamano nuovi fascismi, ma in realtà sono solo vecchi, fatiscenti residui ideologici, funzionali ad oligarchie compromesse e in affari con poteri extranazionali.
Il potere, oggi, da Budapest a Roma, lo si insegue o detiene così, con slogan più o meno simili, con strategie identiche, con povertà di pensiero che arricchisce il declino culturale di un mondo sempre meno complesso, nel quale tutto viene banalizzato, deprezzato al mercato delle ovvietà e dello squallore. Orban è il sotto prodotto dell’Europa degli ultimi venti anni, il frutto di errori, lacune, scelte codarde che hanno alternato nevroticamente rigore o arrendevolezza a seconda delle convenienze, lasciando margini pericolosi, dentro i quali si sono nutriti e sono cresciuti i virus che minacciano la salute della democrazia, da ovest a est del continente. La politica non ha posto nello sport, dice Orban. Lo dice proprio mentre interviene a gamba tesa su un gesto civile compiuto dentro un impianto sportivo. La contraddizione tipica di che rappresenta uno dei volti dei sovranisti d’Europa, la cui politica non si risolve in un gesto, ma nella gestione del potere, nelle derive autoritarie, nelle scelte disumane e retrograde, nella limitazione delle libertà democratiche.
Orban dice che l’Ungheria non ha nulla a che vedere con lo schiavismo, come se il razzismo fosse solo questo, come se fosse solo una questione riguardante i Paesi dal passato coloniale. I sovranisti sono fatti così, passano il tempo a scrollare le spalle, a sentirsi non responsabili, a indicare sempre un altro come colpevole. Da Budapest a Roma, è la stessa, identica cosa. Fanno così anche Salvini e Meloni, i due sovranisti de noantri, quelli che non hanno mai proferito parola contro il razzismo, ma soprattutto non hanno mai fornito soluzioni civili e praticabili. Sono quelli ossessionati dalla sicurezza e dalla legalità (a senso unico), solo quando il colpevole è straniero, possibilmente nero o rom. Strepitano, gridano all’invasione, osannano la propria cultura (quale?!) ritenendola superiore. Pongono come soluzione solo la separazione tra noi e loro, l’esclusione, l’uscita dal cerchio. Un cerchio composto da italiani o al limite da ricchi stranieri o da quelli poveri che accettano la propria subalternità.
Davanti alla tragica e insopportabile fine di Saman, ad esempio, i due sovranisti e i loro seguaci hanno speso fiumi di parole, allargando a tutti gli stranieri di origine pakistana o comunque musulmana lo spazio su cui appiccicare l’etichetta di mostri, incivili e trogloditi. Soluzione al tema? Nessuna. Solo generiche accuse a tutto l’Islam, alla loro cultura che sottomette le donne. Nemmeno una parola su una società, la nostra, che lascia sole le tante Saman che non sono finite sotto terra ma vivono ingabbiate dentro vite scelte da altri. Donne costrette alla solitudine anche da una ghettizzazione basata sulle logiche di esclusione che i sovranisti utilizzano come faro. Logiche che colpiscono anche donne italiane rispetto alle quali la politica della Lega o degli eredi del fascismo da anni flirta con i movimenti per la famiglia che considerano la donna subalterna al marito e mera fabbrica di figli.
Nulla di nuovo, nemmeno in questo. Sono le ideologie vecchie e cadenti che continuano a fornire le parole e le idee a questi leader già vecchi che si spacciano per nuovi, riuscendo a far leva su un popolo sempre più povero culturalmente e sempre più incattivito. Da chi? Dai sovranisti, dalla propaganda che si misura, ad esempio, nel silenzio di fronte ai casi di cronaca efferati nei quali l’omicida è italiano. La sicurezza e la legalità, per loro, valgono solo per gli stranieri, con il sottinteso e pericoloso messaggio secondo cui il delitto commesso da un italiano è più tollerabile, meno fastidioso. La verità è che ai sovranisti, da Orban a Meloni, non importa nulla della patria, del razzismo, nemmeno degli stranieri. A loro interessa solo acquisire consenso. E se per farlo devono passare sopra valori umani che dovrebbero essere scontati e condivisi, lo fanno. Senza battere ciglio.
Orban considera l’antirazzismo come una controparte politica solo perché sul tema è profondamente colpevole. Politicamente. Allora ha paura anche dei gesti dissonanti, di dissenso rispetto alla logica al momento dominante nella sua Ungheria. Così come i sovranisti hanno paura della verità della storia e di quella che proviene dai fatti, dalla cronaca, dai dati, dalle responsabilità estese che poi portano alle tragedie. Per questo negano sempre, negano tutto. Il loro è un movimento politico basato sulla negazione. Il modo più semplice, se ci si pensa, per sfuggire al confronto, all’approfondimento e nascondere la vacuità efficace degli slogan. Il modo migliore per permettersi di vivere in perenne contraddizione e per fare politica sfruttando un fatto avvenuto in un campo di calcio e dicendo al contempo che la politica non ha spazio nello sport.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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