Una lettera sottoscritta da 5931 liberi cittadini e 61 associazioni: è quella che è stata inviata, per la quindicesima volta (viene inviata ogni sabato), dall’Associazione Genitori tarantini al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Una lettera che chiede risposte sulla situazione legata all’inquinamento industriale di Taranto e al diritto alla salute dei suoi abitanti. Il 9 agosto scorso, una delegazione di cittadini e associazioni aveva incontrato il premier nella città di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi. A loro, Conte aveva promesso una risposta, che però non è mai arrivata. E allora è nata questa lettera, firmata da migliaia di cittadini e da una sessantina di realtà sociali, per chiedere incessantemente quella risposta. Qui di seguito riportiamo il testo della lettera.
“Egregio presidente Giuseppe Conte, adesso dovrebbe bastare, non crede? In piena pandemia abbiamo finalmente potuto ascoltare dalla sua viva voce che la salute della popolazione è il primo diritto da tutelare. Come lei sa bene, le parole hanno un peso, un valore, un significato. Speravamo, in cuor nostro, che la sua dichiarazione valesse per tutti, ma così non è stato. Una delle poche, pochissime aziende che ha continuato a funzionare senza interruzioni è stata la ArcelorMittal, a Taranto. Ancora una volta, Taranto è stata trattata a livello di possedimento e non di parte della Repubblica italiana; ferita e stuprata come una donna succube di folli comportamenti che qualche uomo (!) potrebbe far passare come diritto. Quando si parla di produzione di acciaio, tutti gli schieramenti politici si trovano stranamente d’accordo. È su questo argomento che si arenano tutti i dissapori, si appianano le differenze, si pongono pietre tombali sugli ideali, sia a destra che a sinistra (e lei è stato presidente di un consiglio dei ministri di centro-destra ed ora lo è di centro-sinistra).
Perseverare è diabolico, dottor Conte, anche quando si parla di una fantomatica ‘produzione strategica per la nazione’; anche quando quella ‘produzione’ continua ad essere una perdita economica che porterà alla catastrofe nazionale; soprattutto quando quella ‘produzione’ regala morte, malattia, disperazione. Purtroppo, è convinzione comune, tra i politici, che solo grazie all’industria pesante una nazione può ottenere dal resto del mondo rispetto ed attenzione. Bisogna essere tra i paesi più industrializzati, se si vuole partecipare ad incontri a numero ristretto. Non interessa quale danno economico questa idea produrrà, ci si butta a capofitto nell’avventura che già si sa perdente, perché perdente è ormai da decenni, incorniciandola in definizioni atte a toccare lo spirito dei connazionali: ‘produzione strategica per l’Italia’.
Non importa se le materie prime si devono acquistare da altre nazioni, arricchendo queste a scapito della propria; non importa se la ‘produzione strategica’ viene affidata ad una multinazionale franco-indiana, colpevole in tutto il mondo di nefandezze a danno dell’ambiente e della salute delle persone. Forse importa ancora meno prostrarsi davanti alla suddetta multinazionale, accettando di rimettere in discussione un contratto già discusso e firmato dalle parti, pur di continuare questa ‘produzione strategica nazionale’. E quando proprio non ci si può piegare di più, ecco arrivare una falsa ribellione e la dichiarazione che lo Stato interverrà personalmente attraverso Invitalia, in un rigurgito di nazionalismo che non tiene conto dei danni all’ambiente e alla salute degli italiani di Taranto e provincia. Con l’arroganza di credere che il governo avrà la strada spianata, senza neppure considerare un eventuale parere sfavorevole della Corte dei Conti. E con la presunzione di chi può infischiarsene della sentenza di condanna della CEDU ed evitare di rispondere al Comitato dei ministri del Consiglio europeo.
Senza dimenticare che lo Stato italiano è stato nuovamente chiamato a rispondere, davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per la mancata tutela dei diritti, tuttora violati, alla vita e alla salute di noi tarantini. A questo non potrà sottrarsi, immaginiamo. Quanto, fino ad oggi, lo Stato italiano ha pagato in stipendi e benefit i commissari governativi? Quanti miliardi di euro ha messo in campo per l’attuazione dell’A.I.A. (più volte scaduta e più volte prorogata, al pari di una musica con finale ad libitum) e quali risultati sono stati ottenuti, se non qualcosa molto vicino allo zero? Il fatto è che, quando si parla di acciaieria con produzione a caldo, si deve mediare tra salute e lavoro; si arriva addirittura a dichiarare che ‘i tarantini devono scegliere tra salute e lavoro’, quando sappiamo benissimo tutti che mai è stata concessa tale scelta. Quando si parla di produzione a caldo (quella altamente inquinante), si sceglie di chiuderla a Genova e a Trieste per tutelare la salute di lavoratori e cittadini. A Taranto, quindi, non ci sono lavoratori né ci sono cittadini.
Questo governo, al pari dei precedenti dell’ultimo decennio, non ha tenuto e non tiene in considerazione i dettami costituzionali che parlano di lavoro da svolgere in salute, in sicurezza, in un ambiente salubre e con dignità, retrocedendo i lavoratori dell’acciaieria tarantina al ruolo di schiavi. In 8 anni, da un sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo, prima con la gestione statale e dopo con quella del più grande produttore mondiale di acciaio, il governo non è riuscito a risolvere né i gravissimi problemi d’inquinamento né quelli occupazionali, mentre la fabbrica continua a perdere fino a oltre 100 milioni al mese. È il momento di cambiare strada, di chiudere la vecchia fabbrica della morte e di riconoscere a Taranto un giusto risarcimento, a partire dall’istituzione di una no-tax area e un piano di bonifica e riconversione economica studiato da professionisti di riconosciuto talento, avvalendosi di forza lavoro principalmente tarantina. Restiamo in attesa di una risposta scritta così come da Lei promesso e dichiarato durante l’incontro tenutosi con una nostra delegazione nella città di Ceglie Messapica il 9 agosto u.s. Adesso dovrebbe bastare, non crede?”.
Speriamo che la risposta a questa lettera, firmata da 61 associazioni e quasi 6mila persone, arrivi davvero e in fretta e soprattutto che si decida finalmente di ascoltare la voce di chi ha diritto di scegliere il futuro proprio e del proprio territorio, di chi ha a cuore il bene più importante e prezioso, quello che non alienabile e non dovrebbe essere merce di scambio o oggetto di rinuncia in nome del profitto: vale a dire la salute. Dei territori e delle persone.
Redazione -ilmegafono.org
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