9 marzo 2020. È la data ufficiale dell’inizio della quarantena in Italia a causa del Covid-19, il nome scelto dall’Oms per indentificare la famiglia dei coronavirus: d per catalogare la malattia e 19 per indicare l’anno 2019. Da quel giorno l’Italia diventa un Paese “Lockdown”. Non è il solo Paese: in Europa e nel mondo il Covid-19 diventerà il simbolo di una notte che non potrà essere dimenticata, che non è ancora finita e che porteremo sempre nella nostra mente, nella nostra vita. All’inizio della pandemia una cosa è chiara a tutti: nulla potrà essere come prima. È un prezzo altissimo quello che il mondo dovrà pagare: a livello sociale e a livello umano.
“Andrà tutto bene”, si diceva. E sui balconi d’Italia e di mezzo mondo la gente si ritrovava ad applaudire i medici che lottavano contro quel mostro nascosto e invisibile, era un modo per restare vicini e uniti, un modo per farsi coraggio e ritrovarsi accanto gli uni agli altri. In molti c’era la convinzione che questa esperienza ci avrebbe reso migliori, più umani. L’ho sperato anch’io, lo confesso, ma non ci ho mai creduto veramente, e quegli applausi mi sembravano un esorcismo fuori luogo così come le bandiere tricolori appese ai balconi che rivendicavano un’unità solo apparente, ma che non esisteva nel cuore. Non è andato tutto bene, per niente. Siamo rimasti quelli di prima, quelli di sempre. Chi era umano prima lo è ancora oggi, chi non lo era prima oggi è ancora peggio. Gli sciacalli sono rimasti sciacalli, anzi … sono ancora più aggressivi e pericolosi di prima.
Sono venute a galla, una volta di più, tutte le miserie di una classe dirigente totalmente indifferente e ostile a qualunque sentimento che avvicini l’uomo alla ragione, al senso di umanità. Sono state cancellate vite umane senza alcun scrupolo: una generazione che aveva già conosciuto tutte le cattiverie del Novecento, e ad esse era sopravvissuta, se n’è andata via senza nemmeno un abbraccio. Sono scomparsi nel nulla, da un giorno all’altro, inghiottiti dal virus entrato in quelle strutture che avrebbe dovuto proteggere quella generazione e accompagnarla con serenità e gentilezza verso l’ultimo ballo, l’ultimo giro di valzer. Nelle case di riposo per anziani è emersa tutta la violenza e l’incuria di un potere per cui l’unico valore ha il colore dei soldi e del profitto. La parte peggiore, la pagina più brutta, è stata scritta dalla regione più ricca d’Italia, quella che ogni giorno si vanta delle proprie eccellenze e della propria ricchezza, quella che più di ogni altra è lo specchio dell’arroganza politica che questi ultimi trent’anni hanno offerto: la Lombardia.
Le colonne dei camion militari che, in fila indiana, traghettavano le bare dei morti di Bergamo verso gli inceneritori non potranno essere dimenticate, così come le centinaia di morti del Pio Albergo Trivulzio di Milano, la “Baggina”, e di altre case di riposo per anziani. Ci sono ferite che non si cancellano, che chiedono giustizia e verità se non vendetta, che gridano in un silenzio assordante. Nessuna autocritica, nessuna vergogna da parte di chi ha amministrato e amministra questa regione da oltre vent’anni fra scandali e tangenti, fra processi e sentenze passate in giudicato. Serve umiltà per chiedere scusa, ma l’umiltà e la dignità non nascono dal nulla…
Altre ferite si sono accumulate in questi mesi: l’arroganza di Confindustria, per esempio, il vero padrone di questa Italia malata e da sempre succube dei potenti. La voce del padrone, da sempre capace di condizionare l’agire di ogni governo e capace di imporre, ad un Paese in ginocchio, la propria volontà di mantenere aperte le fabbriche più importanti del nord. La stessa voce del padrone che, dopo aver portato all’estero le sedi legali di tanti gioielli di famiglia, oggi chiede imponenti finanziamenti allo Stato italiano per fare fronte alle perdite economiche di questi mesi. Confindustria, FIAT o FCA che dir si voglia: non abitano più sotto lo stesso tetto da quando FIAT è uscita dalla casa comune nel 2012, ma la voce del padrone è sempre un coro compatto.
Non è andato tutto bene, per niente. L’indegna gazzarra scatenata attorno alla liberazione di Silvia Romano è una finestra aperta sul grado di inciviltà che avvolge ancora una parte considerevole di questo Paese, un attacco volgare alla dignità della persona e alla libertà di scelta. A Silvia Romano si rimprovera tutto: dall’impegno umano e sociale al diritto di abbracciare una religione diversa da quella cattolica. In realtà, prima di ogni altra cosa, le si rimprovera di essere donna e soprattutto di essere una donna giovane e libera. Significa molto che gli attacchi più violenti siano portati dalla destra fascista e leghista di questo Paese, dagli organi d’informazione più in sintonia con questi paladini dell’idea di Dio, Patria e Famiglia. Significa molto che tutto ciò trovi tanto spazio in un momento così grave e forse serve anche per spostare l’attenzione e guadagnare consensi elettorali.
Non è andato tutto bene, per niente. Confondere la sostanza delle cose e la loro realtà è un punto irrinunciabile per questo Paese. Così succede che un decreto che regolarizza al ribasso la presenza dei lavoratori extracomunitari per un periodo brevissimo viene presentato come un grande passo. È una regolarizzazione ad orologeria, che accontenta il bisogno di soddisfare un’emergenza del momento: servono braccia e muscoli, servono quelle presenze nei campi e in altri settori. È un imbroglio che ferisce la dignità dell’uomo e il migrante non è considerato come un uomo che ha il diritto di avere diritti. Il tempo dei raccolti finirà e, quel giorno, il migrante tornerà ad essere quello che si vuole che sia: uno schiavo in attesa di un nuovo contratto, di un nuovo padrone che deciderà se e quando avrà ancora bisogno di lui e delle sue braccia. I diritti spettano ai signori del feudo, non ai servi della gleba.
No, non va tutto bene. E quando non va tutto bene le luci che rendono migliore questo mondo si allontanano, si spengono. Ezio Bosso era una di queste luci, come la magia delle favole che si raccontano ai bambini e che gli uomini non sanno più ascoltare. Ma gli uomini non sono tutti uguali, qualcuno riesce a conservare sempre dentro di sé quella magia che li rende diversi, più belli e più ricchi. Ricchi di quell’umanità che si regala a mani aperte, senza nascondere la dolcezza e senza vergognarsene. La vita regala, la vita toglie, la vita spinge a terra e poi spinge a rialzarsi, asciugare gli occhi e continuare a camminare a testa alta. La vita è una musica che tante volte è difficile da ascoltare e amare, ma è una musica che racconta tante cose. Saperla ascoltare è quella magia che Ezio Bosso ci ha regalato per anni e che adesso ci lascia in eredità, con quella mano che agita la sua bacchetta magica nell’aria e quel sorriso che ci dice di andare avanti, di restare ancora quei bambini che anche da adulti scelgono di continuare ancora una volta a credere alle magie, anche quando sembra così difficile.
No, non è andato tutto bene. Ma se sapremo guardare a quella bacchetta magica forse riusciremo a osservare la vita con uno sguardo diverso, e a riaccendere qualche luce in più sul buio che è intorno.
“Ho smesso di domandarmi perché, ogni problema è un’opportunità… La musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare. La musica è una vera magia, non a caso i direttori hanno la bacchetta come i maghi…” (Ezio Bosso)
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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