“…Quando scatti una foto ti vengono in aiuto tante cose: l’esperienza, la cultura, l’attenzione, l’amore, la passione, la pietà che si prova o l’innamoramento di cui si è già stati preda in quel momento per quella cosa che si sta fotografando. Poi segue un secondo momento, che è il momento della scelta, quando si decide di scegliere tra le varie foto già scattate in un’occasione o in un anno o in un giorno. Il fotografo ne sceglie una. Dice a se stesso: questa è quella giusta. Mi rappresenta, e rappresenta quello che ho visto. Dopodiché quella foto può diventare qualcosa in grado di testimoniare, di documentare… ciò che sarà utile per raccontare un tempo quello che fu”. (Letizia Battaglia)
Ho letto questa intervista tanto tempo fa e in questi giorni l’ho recuperata, riletta e sezionata in ogni parola. In quel “questa è quella giusta. Mi rappresenta, e rappresenta quello che ho visto…” sono racchiusi tutti i perché della bellezza che una macchina fotografica sa regalare. È come un lungo viaggio, silenzioso e affascinante, in compagnia di se stessi. Guardi, osservi, e due sentimenti contrapposti solo in apparenza t’invitano a fare quella fotografia: da una parte vivere quel momento che può avere mille ragioni e dall’altra volerlo raccontare e condividere. C’è un viaggio che ognuno di noi fa, prima o poi: è quello dentro le proprie convinzioni e contraddizioni, dentro la propria storia che racconta sempre qualcosa.
La storia di ognuno di noi è sempre figlia dei tempi che si attraversano e la nostra, oggi, è figlia di tempi cattivi, dove l’indifferenza è la grande padrona di casa. Ma in fondo non sono tempi così diversi e così lontani da quelli che hanno vissuto i nostri padri, i nostri nonni. Il vero “peccato originale” dell’uomo non è stato la mela mangiata, come ci raccontano e ci vogliono far credere da sempre, no davvero. È l’indifferenza. Quell’indifferenza che fa girare lo sguardo dall’altra parte ogni volta che guardare costringe a pensare, a reagire, a prendere decisioni. Qualcuno, molti in verità, ha girato lo sguardo da un’altra parte nel Novecento, non guardando in faccia l’inferno che si stava annunciando in tutta chiarezza.
Molti non hanno voluto vedere il fumo che usciva dai camini di Auschwitz. In seguito molti hanno fatto finta di non vedere quello che succedeva in quell’Africa che tutti, a turno, hanno violentato e fatto a pezzi. Molti hanno fatto finta di non sentire l’odore del napalm in Vietnam, le cannonate al Palacio de La Moneda a Santiago del Cile. Molti hanno finto di non vedere le migliaia di “Desaparecidos” nell’Argentina dei Generali. Infine il Novecento si è chiuso con l’ultimo sguardo distratto e complice sulla Jugoslavia, da Sarajevo a Srebrenica. Sembra quasi che agli uomini gli occhi non servano più a nulla.
Cosa c’è di diverso quindi dallo sguardo di oggi che non vede il dramma dei migranti e i morti del Mediterraneo ? Nulla, è lo stesso sguardo freddo e volgare di un tempo che fu e che è ancora. Eppure quel dramma in gran parte lo abbiamo costruito noi, con le nostre stesse mani sempre pronte a contare i soldi e a firmare le peggiori pagine della storia. “Quella foto è quella giusta. Mi rappresenta, e rappresenta quello che ho visto… può diventare qualcosa in grado di testimoniare, di documentare… ciò che sarà utile per raccontare un tempo quello che fu”, racconta Letizia Battaglia. È così. Racconta quello che fu. E nel tempo di oggi le foto di un tempo raccontano quello che fu, da Auschwitz a Srebrenica, passando per Saigon, Santiago, Buenos Aires, Soweto, Kabul e Kobane, Gaza.
Oggi le foto dei migranti morti nel Mediterraneo stanno facendo il giro del mondo, e un giorno racconteranno quello che troppi occhi fanno finta di non vedere adesso. Dovremo spiegarlo ai nostri figli e a figli dei nostri figli, e dovremo saperlo fare, perché le generazioni che verranno faranno tante domande, precise e dure. Saranno un pesante atto d’accusa verso la nostra generazione, com’è giusto che sia. Dovremo spiegare perché abbiamo accettato questo e perché non abbiamo saputo reagire con forza.
Credo nell’importanza della fotografia come documento, come un libro di storia da sfogliare. Per anni ho letto tutto quello che potevo leggere sui grandi fotoreporter di guerra: libri, mostre, la loro vita e la loro storia personale: da Robert Capa a Donald McCullin e Nick Ut, Eddie Adams e Bernie Boston. La guerra di Spagna e il Vietnam, la ribellione degli anni sessanta in America: nessuno meglio di loro è riuscito a spiegare quei giorni con tanta forza. E poi Tina Modotti, la fotografa della rivoluzione messicana la cui storia si intreccia con quella di Frida Kahlo, femminista e comunista come Tina. Fotografia e pittura, un binomio bellissimo in un’epoca dura per l’arte, la Rivoluzione e il femminismo.
Poi un giorno di molto tempo fa ho letto un intervista a Letizia Battaglia, che per molti è stata la fotografa contro la mafia siciliana. Letizia è stata forse qualcosa di più. E anche la fotografia è qualcosa di più.
In una serie di interviste rilasciate a “Il Manifesto”, fra il giugno 2003 e l’aprile 2004, Donald McCullin affermò: “Fare il fotografo di guerra non è una professione ma un modo di vivere, di sentirsi quanto mai vicini alla condizione umana, alla radice del coraggio e delle paure, dell’incoscienza e degli ideali. Oggi tengo i negativi delle mie foto in un’altra ala della casa, lontano dalla camera da letto. Perché di notte i fantasmi di tutte le vittime di guerra che ho ritratto escono dagli schedari, e fanno il girotondo. Io non voglio disturbarli, l’ho già fatto abbastanza”. Oggi Donald McCullin è un uomo di ottantatré anni e da qualche tempo il suo sguardo è rivolto a paesaggi e natura. Non è una presa di distanze dagli anni in cui era tra i fotoreporter di guerra più famosi del mondo, ma forse una forma di pudore interiore, nei confronti di tutto quello che i suoi occhi hanno visto e le sue mani hanno fotografato.
Perché fra le emozioni che una macchina fotografica sa regalare c’è anche quella dolcezza che cerchiamo e di cui abbiamo bisogno. Ernesto Che Guevara diceva che “bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza” . Credo fortemente nella bellezza di questa frase. Ognuno di noi segue la propria strada e, come mi ha detto una volta un carissimo amico, ognuno di noi ha la sua cassetta degli attrezzi per non perdere di vista i sentimenti, la tenerezza. Quando scatti una fotografia rovesci la tua cassetta degli attrezzi e ti regali un’emozione. Quell’emozione può avere mille colori: un momento di sofferenza e di ribellione umana, e allora può diventare un documento. Un paesaggio o uno sguardo intenso, un sorriso, il volto di una persona, e allora diventa quella tenerezza di cui hai bisogno in quel momento. Comunque sia è un momento vissuto, con tutto il suo profumo e il suo valore. Per questo non si straccia mai una fotografia, è una pagina vissuta. È un pezzo della propria piccola storia.
Anch’io ho un viaggio che sogno, dentro le mie convinzioni e contraddizioni. Un giorno riuscirò a farlo o almeno così voglio credere. Una compagna di viaggio: la macchina fotografica, meglio due… mai fidarsi troppo della tecnologia. E un paio di scarpe buone, in grado di portarmi dove non sono mai stato. Vedere, provare a capire quello di cui ho solo letto o sentito parlare. Conoscere posti, volti, storie, capire davvero quante verità esistono e devono essere raccontate a chi non le conosce. Scrivere e scattare una fotografia, in fondo sono cose che si danno la mano. La fotografia più bella sarà sempre la prossima, oppure quella che non sarò riuscito a fare.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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