C’è un bel ponte il 25 aprile. Le scuole si fermano, le fabbriche chiudono i cancelli per qualche giorno, qualcuno si concede una vacanza che sente di meritare. Ma chi l’ha costruito quel ponte? È una storia lunga e comincia il 28 ottobre 1922, quando un codardo vestito da Re s’inchina davanti alle camice nere di Benito Mussolini. Non un gesto né un tentativo di resistenza davanti agli squadristi fascisti, solo la consegna del Paese nelle mani di chi in poco tempo da presidente del Consiglio diventerà Duce. La violenza verbale, fisica e politica è chiara fin dai primi giorni di vita del Partito Fascista e quel 28 ottobre 1922 è solo l’inizio di un ventennio che cancella vite e generazioni. Eppure solo poche avanguardie seppero capirlo, la grande maggioranza del Paese visse il sogno ubriacante di un nuovo impero dentro e fuori dai confini nazionali.
Quel sogno era in realtà un incubo, ma la folla inneggiava sotto il balcone di Piazza Venezia quando il Duce raccontava la sua follia. In pochi videro la violenza politica e sociale nascosta dietro quella follia, anche quando nacque l’alleanza con la Germania nazista. In troppi chiusero gli occhi di fronte alle leggi razziali del 1938 e alle violenze contro ogni forma di dissidenza politica. Eppure qualcuno stava già lavorando alla costruzione di quel ponte. Ci lavorava in silenzio e in segreto, ognuno di loro come poteva. Qualcuno nelle fabbriche e nei posti di lavoro, qualcuno dalle galere e dal confino cominciava a disegnarlo quel ponte, gettando il seme. E dai semi nasce sempre un fiore.
Ci volle tempo, fatica e sangue. Serviva tanto coraggio perché, fino all’8 settembre 1943, l’Italia era ancora alleata della Germania ed era al suo fianco nella guerra di aggressione all’Europa e nell’occupazione dei paesi invasi. Ma il progetto del ponte continuava, un giorno dopo l’altro, e un giorno alla volta si completa: le montagne accolgono i ribelli, le città del nord vivono i grandi scioperi del 1944 di cui parlerà tutto il mondo; il New York Times arriverà a considerarli come “il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti”. Milano, Torino pagheranno un prezzo altissimo per quegli scioperi, con centinaia di deportati nei campi di concentramento. Ma il seme gettato regala i suoi germogli, sta dando il suo fiore più bello: è il fiore del Partigiano.
Sarà la lotta di Resistenza partigiana a completare il progetto e a pagare il prezzo più alto. Generazione Partigiana, una generazione diventata adulta a vent’anni, consapevole che non c’era più tempo e non c’era altra scelta se non quella della lotta armata, sulle montagne, nelle città e nelle campagne. Ma come disse una volta Lidia Menapace: «La Resistenza non fu solo un fenomeno militare, fu un movimento politico, democratico e civile straordinario. Una presa di coscienza politica che riguardò anche le donne».
Sono passati tanti anni, ma quel ponte è ancora lì a ricordarci quella generazione e quel sangue versato. Quella generazione, quello che ne è rimasto, è alla stagione dei saluti. Solo il tempo poteva sconfiggerla. Ha lottato e combattuto contro i fascisti e i nazisti, ha riconquistato la libertà per regalarla a noi. Da quella lotta di resistenza nasce la nostra Costituzione e anche questo molti l’hanno dimenticato. E allora adesso c’è un testimone da raccogliere, c’è una storia da rispettare, ricordare e raccontare. Ma c’è anche un impegno da continuare, perché la libertà non è un’idea e solo quando la si perde se ne comprende fino in fondo il valore. Per questo va difesa sempre.
C’è un bel ponte il 25 aprile. Le scuole si fermano, le fabbriche chiudono i cancelli per qualche giorno, qualcuno si concede una vacanza che sente di meritare. E ci sono piazze e strade che si riempiono di gente, di canti e di bandiere, e c’è un fiore che ognuno di noi dovrebbe stringere fra le mani e portare su quel ponte, ma non solo il 25 aprile. Quel fiore, rosso e profumato, dovrebbe essere vivo ogni giorno dell’anno. Dovrebbe ricordare a tutti che le conquiste sono un valore che va difeso sempre, tutti i giorni. È così, oggi, in questo Paese? No, non è così. Oggi, in questo Paese e nel resto d’Europa, c’è ancora l’odore di un fascismo che alza la voce. E quel ponte, costruito con la vita e il sacrificio di una generazione capace di restituire dignità a un popolo, è in pericolo.
C’è bisogno di resistenza sempre, anche oggi. Resistenza contro un nemico che si presenta con tante facce: la destra fascista, razzista e xenofoba, la mafia con le sue mani sulle città, l’ignoranza grassa e volgare di chi pensa che tutto le sia dovuto, i padroni vecchi e nuovi che ti dicono quando e se puoi lavorare; l’arroganza di una classe dirigente, politica e industriale che ogni giorno offende la parola “politica” e la trasforma in mercato.
Nei giorni che hanno chiuso la scorsa settimana, la Corte d’assise di Palermo, dopo un processo durato cinque anni e sei mesi, ha emesso la sua sentenza sulla trattativa fra lo Stato italiano e la mafia. È una sentenza di colpevolezza ed è una macchia, l’ennesima, sulla coscienza dello Stato italiano. Questa condanna ci racconta che non era questo lo Stato di diritto per cui hanno lottato e pagato un prezzo altissimo le donne e gli uomini che hanno costruito il nostro ponte. Non era questo lo Stato per cui sono morti Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti coloro che hanno dedicato una vita alla lotta contro la mafia e per una società migliore e più giusta.
Antonio Gramsci scriveva: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano… L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera… Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo».
La “città futura” di cui parlava Antonio Gramsci è la città che tutti noi dobbiamo continuare a costruire, perché è ancora lontana dall’essere. E per farlo è necessario essere partigiani nell’animo, fare delle scelte, non essere indifferenti. Ma non basta esserlo un giorno all’anno, dobbiamo esserlo ogni giorno. Perché quel ponte ha molti nemici, vecchi e nuovi. E anche quel fiore Partigiano ha molti nemici vecchi e nuovi. E quei nemici sanno che l’indifferenza e l’apatia sono il terreno su cui muore una democrazia. Loro concimano quel terreno e il loro è un concime che non fa nascere fiori.
La Resistenza di cui oggi c’è ancora bisogno deve avere anche il profumo dell’accoglienza e della solidarietà verso i migranti, verso i profughi che cercano in Italia e in Europa una porta aperta. In troppi vogliono chiudere quella porta e torna di moda una parola che non ha più diritto di cittadinanza: razza. Spesso la parola “razza” serve per nasconderne un’altra: razzismo.
Nella primavera del 1919 un maestro elementare fondò a Milano un movimento che chiamò “Fasci di Combattimento”, quel maestro elementare si chiamava Benito Mussolini. Quel movimento e quel maestro elementare concimarono in fretta il terreno in cui si trovava l’Italia dopo il primo dopoguerra. Si guadagnò il consenso e l’apprezzamento delle classi più agiate e degli industriali dell’epoca. Tre anni dopo fece marciare su Roma le sue camicie nere e riuscì a farsi affidare da un Re pavido e codardo l’incarico di formare il nuovo governo. Quel governo portò la repressione politica, le leggi razziali, la guerra. Sull’Italia e sull’Europa calò una notte lunghissima. Qualcuno sta riprovando, oggi, a riportare indietro le lancette dell’orologio. Ecco perché serve fare la guardia al ponte e al fiore Partigiano. Buon 25 aprile sempre.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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