L’immagine più nitida sono le migliaia di persone in piazza con la polizia schierata di fronte. Il movimento è quello etichettato come “No Global”. Siamo a Genova, è il 2001. Nel capoluogo ligure si tiene il G8. Il movimento, che nasce a Seattle e si espande a macchia d’olio, si oppone, in estrema sintesi e semplificando, ai fenomeni della globalizzazione intesa come sfruttamento dei paesi più poveri a favore di quelli più ricchi in nome del neoliberismo. Mischia varie anime: dall’ambientalismo all’attenzione per le minoranze e gli emarginati di tutto il mondo.
Sono passati solo 16 anni e la situazione globale è profondamente diversa dalla stagione dei movimenti. Il Sud America ha perso i suoi leader “ di sinistra”. Non c’è più Castro e non c’è più neanche Chavez. Il subcomandante Marcos, dal 2014, ha abbandonato il suo ruolo di portavoce dell’EZLN in Chiapas. È finita in rovina l’esperienza di Lula in Brasile (che ospitava a Porto Alegre il World Social Forum). E se il presidente Mujica, nel piccolo Uruguay, ha fatto recentemente clamore col suo socialismo francescano, la sua esperienza non troppo carismatica non ha avuto seguito.
Il 2001, poi, è ricordato più per l’11 settembre. E la storia del terrorismo la conosciamo bene. L’economia è cambiata, con l’ascesa del colosso cinese e l’ascesa dell’Est asiatico. Sono arrivati i social network. La globalizzazione, come fenomeno, è esplosa col web 2.0 e la possibilità di condividere file con tutto il mondo e di poter produrre in tutto il mondo. Basti pensare alla rivoluzione musicale (vedi gli mp3). Sembrava che il liberismo avesse vinto almeno fino alle crisi del (e successive al) 2008.
L’aspetto più interessante di questi cambiamenti resta la percezione della globalizzazione da parte della politica e, in definitiva, dei cittadini. Partiamo dall’America. Il presidente Bush, repubblicano come l’attuale, diceva (nel 2008): “Il passo più decisivo sarà un accordo che abbatta tutte le barriere commerciali a livello globale. Le nostre nazioni devono rinnovare il loro impegno a aprire le economie e a porsi fermamente contro l’isolazionismo economico” (“The most effective step of all would be an agreement that tears down trade barriers at the global level […] our nations must renew our commitment to open economies, and stand firm against economic isolationism”).
L’opinione di Trump è opposta: “Non abbandoneremo questa nazione al falso mito della globalizzazione. La nazione rimane il vero cardine dell’armonia e della felicità. Guardo con scetticismo agli accordi internazionali che ci legano e costringono al declino l’Americ e non stringeremo nessun patto che riduca il potere di controllare i nostri affari” (“We will no longer surrender this country or its people to the false song of globalism. The nation-state remains the true foundation for happiness and harmony. I am skeptical of international unions that tie us up and bring America down, and will never enter America into any agreement that reduces our ability to control our own affairs”).
Eppure nello stesso ruolo, ma pochissimi anni prima, diceva ancora Bush – che non ha sostenuto Trump nella sua campagna: “Alcuni hanno provato a metterci di fronte alla scelta tra gli ideali americani e gli interessi americani. L’America crede nel libero commercio e nei liberi mercati e prospera quando i mercati sono aperti” (“Some have tried to pose a choice between American ideals and American interests […] America believes in free markets and free trade — and benefits most when markets are opened”).
Anche in Francia soffiano venti no-global. Le Pen ha da sempre sbandierato come principi il “rifiuto della globalizzazione e dell’ultra-liberismo selvaggio, la cancellazione delle frontiere” (leggi qui).
Ma anche in casa nostra è cambiato molto. Bossi, nel 2001, dichiarava: “La Lega non è mai stata capitalista. Noi siamo liberisti e soprattutto siamo per la compartecipazione nella società. […] Non vorrei che un certo capitalismo, che oggi viene chiamato globalizzazione, diventasse qualcosa di simile al comunismo. E così, invece di aumentare il mercato, attraverso i monopoli lo riduce […] La Lega crede nel mercato che è qualcosa che interessa tutti”. Parole che sembrano in contraddizione con quelle dell’attuale segretario Salvini, pronunciate nel 2014: “Questi signori non sono affatto contro l’euro. Farage, piuttosto, è contro il made in Italy, si dice favorevole all’abbattimento di qualsiasi frontiera, fa professione di liberismo sfrenato, è appoggiato dai banchieri (leggi qui)”.
Chiunque dei due abbia l’ultima parola, resta il fatto che un partito che si chiama Lega Nord pare abbastanza localista e no-global per costituzione. Vale la pena sottolineare come lo statuto della Lega Nord, che ne riconosce le finalità all’articolo 1, recita testualmente: “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana“. Vagli a parlare di mercati internazionali.
A destra, poi, Fratelli d’Italia pone la questione in maniera decisa nel programma del 2014 per le Europee: “Le spinte omologanti che originano da una globalizzazione priva di regole, cui spesso l’Europa si piega, contengono una minaccia anche per i fattori caratterizzanti l’impresa agricola italiana”. E ancora nel programma per l’Italia: “Ma la ridotta dimensione, in tempo di crisi e di globalizzazione dei cicli produttivi e commerciali, paga il dazio alla minor capacità di attingere alle risorse finanziarie necessarie per mantenere la competitività e investire su innovazione e nuove tecnologie. Per decenni si è trattato il tema del lavoro quasi fosse indipendente dalle dinamiche economiche e dalla globalizzazione”.
C’è da chiedersi dove fossero la destra e i suoi rappresentanti quando si parlava di globalizzazione per contestarne gli effetti potenzialmente nefasti, visto che il senno di poi è universalmente riconosciuto come scienza esatta. Delle due l’una: o la Meloni (in AN dal 1995 al 2009 e ministro con Berlusconi) e Salvini (militante dagli inizi della sua carriera nella Lega che, come AN, era al governo nel 2001) erano in realtà di sinistra oppure non avevano capito a fondo il fenomeno e arrivano abbondantemente a tempo scaduto. La prima ipotesi pare poco plausibile e non ci resta che svolgere due riflessioni.
Il mondo (occidentale per la precisione) si è bruscamente svegliato dal sogno che la globalizzazione e il compagno liberismo portassero profitto e prosperità (all’Occidente) e che il capitale (nel senso marxista del termine) avesse bisogno di aria per respirare (continuare a produrre vendendo ai paesi più poveri – poveri, appunto, ma numerosi). Le contestazioni della stagione dei movimenti mettevano in dubbio queste convinzioni, ma allora gli stessi movimenti erano etichettati soltanto come un insieme di violenti che manifestavano. Li presero per matti salvo riconoscere, implicitamente, adesso, che qualche problema ci fosse (non prima che la crisi colpisse l’Occidente e riscoprissimo, tutti, la povertà cui per decenni abbiamo costretto altri popoli).
E qui nasce il secondo tema. L’incapacità della sinistra di porre alternative credibili. La sinistra, su queste battaglie, ha perso legittimità e residenza nella parte di elettorato e di coscienze che le competeva e la destra (estrema), mantenendo inalterate le macroscopiche differenze rispetto ai propri avversari, riesce a far leva sui punti di contatto che aveva con la sinistra più integerrima: lotta alla globalizzazione, attenzione agli emarginati (purché italiani però). La chiave di lettura del fenomeno, almeno in Italia, è il progressivo spostamento al centro di quello che fu il PCI. Il processo coincide con quello che descrivono molti analisti politici: l’allontanamento della sinistra dal popolo e l’avvicinamento alla prospettiva neoliberista.
Ad amplificare il fenomeno contribuisce la deriva della sinistra (a sinistra del PD). Qui si è completamente persa la bussola. Tra battaglie inutili, ideologie da libri polverosi, battibecchi da circolino e assenza totale di leader credibili, si sono ritrovati inutili in un mondo ribaltato. D’altronde, se di programmi si parla, è emblematico, per esempio, che Sinistra Italiana nel suo documento politico non citi neanche le parole “globalizzazione” e “liberismo”. Si potrebbe pensare che l’attenzione per gli ultimi e per certi temi sia, comunque, positiva, anche se condotta da una destra cialtrona e balbettante.
Ammesso e non concesso che avessero ragione i movimenti dei primi anni 2000 nel criticare l’avidità del capitalismo nell’espandersi e nell’omologare le culture, la vittoria della destra su questi temi non rappresenta la speranza di una soluzione ma la tragedia di un gigantesco fraintendimento. Perché se da una parte si dice di combattere le élite, dall’altra si fa esattamente il loro gioco conducendo una battaglia che solo nelle parole vede i molti contrapposti ai pochi ma che nei fatti si risolve in una guerra tra poveri.
La lotta alla globalizzazione non è chiudersi in casa col fucile puntato alla porta all’ombra del proprio campanile ma, come sottolineava Chomsky nel 2008, parlando del World Social Forum e contestando la definizione di No-Global: “Il World Social Forum è un esempio paradigmatico di globalizzazione. È l’assemblea di un numero infinito di persone da tutto il mondo, separato da quelle poche privilegiate élite che si incontrano al World Economic Forum e che sono definite favorevoli alla globalizzazione da questo sistema di propaganda” (“The WSF is a paradigm example of globalization.It is a gathering of huge numbers of people from all over the world, from just about every corner of life one can think of, apart from the extremely narrow, highly privileged elites who meet at the competing World Economic Forum, and are called “pro-globalization” by the propaganda system”).
Penna Bianca -ilmegafono.org
Commenti recenti