C’era un volta Vasco Brondi, giovane emiliano che in camera, con una chitarra, cercava il romanticismo nelle Luci della Centrale Elettrica. Era il 2007, sono passati dieci anni, è uscito “Terra” e sono finiti gli anni zero. Di come si cresce, di come si cambia e, forse, di come si invecchia, storie di trentenni. Ve l’abbiamo annunciato così questo pezzo sul nuovo album (“Terra”) de Le Luci della Centrale Elettrica, per chi non lo conoscesse Vasco Brondi, per chi non lo sapesse passione sconfinata per chi scrive. Eppure è tempo di fare bilanci, un po’ perché è un vizio di chi scrive di musica valutare la maturità di un’artista nella sua evoluzione, un po’ perché questo ultimo disco ci spiazza e un po’ perché i bilanci è sempre meglio farli sulla pelle degli altri che su se stessi.
Ritroviamo quindi Vasco con una barba da hipster berlinese. Ha dismesso le basette, è un po’ cresciuto ma veste ancora di scuro. Cominciamo ad ascoltarcelo su Spotify, con la sensazione di quando saluti un vecchio amico che hai conosciuto e che dopo un po’ ritrovi cambiato. Insomma il compagno di scuola di Venditti. Cerchi online cosa se ne pensa e sui primi ascolti realizzi che la chiave di lettura di questo album perfetta ce la suggerisce “Vice” (leggi qui). Nel senso dell’osservarlo alla luce del tempo che passa, meno nelle conclusioni (ma sono gusti). Questo album va letto nell’evoluzione dell’artista ma anche nella nostra evoluzione, perché in questo legame c’è sempre stata la sua grandezza.
Chi ama le Luci della Centrale elettrica ne ha amato l’intimo contatto, la capacità di raccontarci, di ritrovarcelo vicino, di sapere che era uno che parlava di noi. Un tizio schivo, timido, non particolarmente bello, uno che poteva essere tutti. Ma si cresce o si invecchia, tutti, noi e Vasco Brondi. Uno che cantava, come ebbi modo di osservare su queste colonne, insieme a un’intera generazione, che eravamo tutti uguali, tutti provinciali, tutti aggrappati alle stesse cose, tutti insieme che “strattonavamo il mare dove andavamo a farci male”, “mentre parecchi facevano l’università alcuni si impiccavano in garage”, ma tutti “a prendere freddo da qualche parte”. Sembrava punk ma eravamo tutti sotto il palco e d’estate ascoltavamo Brunori.
Era un rivolgersi generico a qualcuno che eravamo tutti: “trasformiamo questa città in un’altra cazzo di città”, il grido diventato esagerato e nichilista di “un po’ di carta stagnola per addobbare a festa questa stanza di merda”. Ce lo ritrovammo più grintoso e sereno in “Costellazioni” e ci spiazzò ma ci piacque. “Terra” sembra una sintesi di tutto ciò e non sono sicuro che sia un risultato positivo. Come se si fosse adagiato al centro del pop invece di continuare a stupire e a esagerare nel raccontarci. Il perché forse è semplice. La poetica è più intima, più umana, probabilmente arricchita e modificata dalle esperienze di un cantante di discreto successo che non fa, necessariamente, più la vita di prima.
Certo, perché se ti chiami Le luci della centrale elettrica e se di mestiere canti, è normale che tu attinga a piene mani da quello che vedi dalla finestra, da quello che senti per strada. Ma se cambiano strada, persone, finestre, cambia il tuo modo di vederle e forse un po’ di scolli da quel mondo che cantavi. Non c’è accusa ma rammarico nell’ascoltarsi questo cd e nel rendersi conto che “andremo a lavorare tutti in banca”, come diceva Venditti, e che in fondo non c’è nulla di male. Questo disco va preso quindi come un bilancio per guardarsi e cercarsi. E forse non ci troviamo più il Vasco con la chitarra con il nastro adesivo sopra.
Le tracce sono dieci, e quelle degne di nota che finiscono dirette nella playlist sono 4, non di più. Un tempo ci finivano gli album interi, ma c’era anche molto più tempo. Qui è un gran bel pezzo. Storia di immigrazione, breve docufilm solo musicale, flash di immagini una dietro l’altra, istantanee come solo Brondi sa scattare, da leggere senza fiato, col ritmo incalzante, con la voce che ricorda quella passata in un microfono, con il timbro “tirato” tipico di Brondi, un ritmo che sa di sud del mondo. Storie di debolezza ma non di rassegnazione, storie di resistenza stoica, di onda che si infrange, torna indietro e riparte.
Insieme a Iperconnessi, la nostra preferita, è assolutamente la più riuscita. Ed è proprio Iperconnessi che ha il testo più significativo, più calzante e più azzeccato. “I desideri inespressi dove si sono nascosti? Vanno bene i progressi ma tu come ti senti, i territori promessi sono sotto ai bombardamenti”. Bellissime le frasi che lancia contro l’ansia di apparire (“spari razzi di segnalazione per cercare di distinguerti”), la pubblicità dei sentimenti e il fastidioso vociare di tutti (“cantami della proprietà privata interiore, del rumore di fondo della società dell’opinione”) e contro l’idealizzazione e il distacco dalla realtà (“cantami dell’immagine ideale, da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale”). Questo è Brondi, questo il suo stile.
Nonostante i reiterati ascolti negli altri pezzi sembra di non riconoscerlo. In particolare, la musica non sembra solo cambiata o evoluta, sembra un’altra cosa: a volte è come se non legasse con quello che ci si aspettasse. A forma di fulmine ha un testo affascinante, ma questo pop leggero è fatto per altro, più per una canzone di Vasco (Rossi) in uno stadio. Lo stesso si può dire di Coprifuoco. Il testo, al solito, ha il fascino del cut up: “cos’è che ci rende unici e fragili/con sette vite e sette miliardi di desideri/una pelle molto sottile/sempre assaliti dai pensieri/su questo pianeta chiamato Terra/anche se come noi è quasi soltanto acqua/come noi tra un amore e una guerra/assediati da quello che manca”.
Nonostante le critiche, restiamo fedeli alle Luci della centrale elettrica, a questo stile intimo, affascinante, così lontano dal fastidioso ideale del superuomo incazzoso del rap che nasconde la realtà dietro le sue bambinesche convinzioni, così lontano dal vuoto esasperante dei testi dei pezzi odierni più in voga.
Penna Bianca -ilmegafono.org
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