C’è un sapore di insopportabile amarezza attorno alla strana vicenda di Pino Maniaci, sul merito della quale non intendo nuovamente tornare (Ingroia e l’altro legale ieri hanno detto cose molto importanti e ciascuno può valutare), ma che sicuramente impone, da qualsiasi prospettiva la si osservi, una riflessione. Non certo la bagarre da stadio a cui si assiste sui social, perché non è continuando a comportarsi come in uno sconfinato bar Sport, infatti, che si può ragionare su quanto ci accade intorno. Ciò che occorre, piuttosto, è l’apertura di una discussione seria, non solo all’interno dell’antimafia, sul modo di affrontare certe situazioni.
Prima però vorrei premettere due cose che nascono da questa ultima vicenda: innanzitutto, indipendentemente da chi sia il soggetto sottoposto a un’indagine, dovrebbe essere evidente come non sia accettabile, per un Paese civile, che la stampa sappia le cose prima dell’indagato. In secondo luogo, sarebbe necessario, finalmente, un ragionamento sulle intercettazioni che sia scevro da preconcetti o da strumentalizzazioni e che faccia comprendere che la pubblicazione di frammenti di intercettazioni, spesso non contenute negli atti, sottoposte a montaggio e provenienti da contesti differenti ma riunite in un quadro unico che è, per forza di cose, soggetto a una scelta, andrebbe non limitata ma almeno disciplinata trovando il giusto compromesso tra il diritto di cronaca e la tutela della persona intercettata.
Non è una questione meramente di privacy, come si dice, ma di rispetto della dignità e della vita di un indagato (che, ricordiamolo, non è ancora condannato), il quale ha il diritto di essere giudicato dalla magistratura senza veder passare preventivamente la propria dignità e la propria immagine sotto la gogna infuocata e incontrollabile di cittadini, utenti, forcaioli da salotto, liberi di calunniare senza prove e senza alcun contraddittorio. Questo principio, ovviamente, vale per tutti, anche nel caso in cui l’indagato fosse un nostro nemico, qualcuno che non ci piace. Ecco perché guardandoci dentro, possiamo accorgerci di aver sbagliato tutti in questo, almeno una volta nella vita.
Il giustizialismo, d’altra parte, è una droga a largo consumo ed è attraente, perché ci permette di sfogare le rabbie e le delusioni che accumuliamo quotidianamente in un Paese pieno di ingiustizie e di corruzione. Ma forse è meglio ricordare a qualcuno che il garantismo rimane un principio molto più sano, magari meno appagante, ma sicuramente più equo. Con il tempo ho imparato che un Paese così profondamente spietato, pronto a bersi da subito qualsiasi scenario risultante da un’indagine, a crederlo fondata prima ancora che vi sia un processo, solo perché la stampa ne dà notizia, con tanto di intercettazioni che spesso non danno certezze sui reati ma al limite sugli atteggiamenti (decontestualizzati, anche se certamente deplorevoli), è pericoloso.
Per tutti. Perché di persone finite sotto indagine e processo, o persino agli arresti, infangate e poi assolte pienamente perché non c’era nemmeno il reato, ne ho conosciute. Alcune anche assolte con tanto di risarcimento per ingiusta detenzione. E la ferita subita non si rimargina facilmente. Ovviamente ciò non vuol dire che non si possano esprimere dubbi o giudizi sull’operato di questo o di quel personaggio, ma forse sarebbe giusto evitare condanne anticipate corredate da ingiurie, offese personali e altro. Basterebbe semplicemente seguire il corso delle cose e attendere gli sviluppi, rinviando il tutto all’accertamento delle eventuali responsabilità.
Ciò detto, la riflessione sorta da questa ultima brutta storia dovrebbe piuttosto portarci a un altro tema, ossia alla solidità e alla conformazione del movimento antimafia, un movimento disordinato, sempre meno capace di fare rete e terribilmente fragile, martellato da litigi, invidie, scontri, scandali più o meno piccoli. Un movimento fatto da tantissima gente che lavora nei territori, con dedizione e passione, ma nel quale, nel bene e nel male, la supremazia appartiene ancora a simboli, personaggi, miti, uomini della Provvidenza. Il lavoro corale, mirato al miglioramento di questo Paese, fatto di obiettivi comuni, finisce per scontrarsi con decine di recinti personali e isolati, di guerre interne, di dispetti.
Per tale ragione, chi oggi sostiene di aver nutrito sempre dei dubbi su Pino Maniaci, piuttosto che autoglorificarsi con inopportuna quanto inutile superbia avrebbe dovuto parlare prima, ma soprattutto avrebbe dovuto e dovrebbe ancora interrogarsi sul perché questo movimento oggi appaia di una fragilità così disarmante. Basta un’indagine o un sospetto, qualcosa che possa scalfire uno dei suoi simboli, che immediatamente la terra si apre, le montagne scricchiolano e un vento di panico, tristezza, delusione, pessimismo sembra travolgere tutto. C’è chi sbraita, chi attacca, chi fugge, chi gode, chi se la ride, chi resta immobile e in silenzio, chi se ne frega e si prende in pieno il destino che gli tocca. Ciascuno rema per la propria parte o attende per ricavarne una qualche incomprensibile soddisfazione. Dimenticando che a perderci è l’intero movimento.
Per fortuna c’è anche qualcuno che, con dolore, ma mantenendo la lucidità, chiede risposte sacrosante e attende, non partecipando al fango che altri sono pronti a scagliare, e cercando sempre di non perdere di vista l’obiettivo comune. Ma qual è allora la salute dell’antimafia? Essa è davvero così fragile da andare nel caos e indebolirsi davanti a una eventuale macchinazione contro un suo esponente o, nel caso peggiore, a un tradimento doloroso dello stesso? Da cosa deriva questa apparente fragilità? È solo una questione di organizzazione? Un fatto di periferie e decentramenti incontrollabili o al contrario di eccessivo accentramento della lotta? Un problema di gerarchie dispotiche e di egocentrismi che oscurano contenuti e obiettivi?
Queste sono solo alcune delle tante domande che, nell’attesa di capire come finirà la storia di Pino, dovremmo farci cercando le risposte più utili. Ma non sembra un’attività interessante, a quanto pare. Non per la maggior parte, che invece preferisce concentrarsi sui video, sugli audio, sulle divisioni tra sostenitori e detrattori, sui “lo sapevo” e “te l’avevo detto”, sull’infallibilità dei magistrati, sulla delusione, sulle lezioncine morali postume.
Sempre, ovviamente, in quel clima da tifoseria che degrada qualsiasi logica e qualsiasi tentativo di analisi. Infischiandosene dello stato d’animo di tutti quei ragazzi impegnati davvero sui territori che in questi giorni si sentono gelare il sangue e avrebbero bisogno, oltre che di risposte, anche di un abbraccio collettivo. Di una rassicurazione. Un abbraccio doveroso che li comprenda tutti, partendo da Letizia e dai tantissimi giovani e onesti redattori che sono da anni l’anima di Telejato.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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