C’è voluta una foto, un’immagine terribile, per aprire uno squarcio nella violenta indifferenza dell’Europa sul tema dei rifugiati. Un bambino di cinque anni con la faccia sulla sabbia, uno dei tantissimi morti annegati nel Mediterraneo in questi anni. Una delle tante vittime sulla coscienza della politica europea. Una vittima che verrà ricordata, perché nella percezione collettiva questa volta esiste, all’improvviso ha un volto riconoscibile. D’altronde, siamo nella società dell’immagine, dove solo ciò che è visibile esiste ed esiste ancor più se la testimonianza visiva è forte e diffonde rapidamente la sua drammaticità. Così quella foto, che mostra ciò che lasciamo accadere da tanti anni, ha costretto alcuni (pochi, purtroppo) governi ad attivarsi e a cambiare rotta, a non fingere e negare più.
L’Austria ha preceduto tutti, già sollecitata dalla popolazione sconvolta dal ritrovamento dei profughi morti asfissiati dentro un tir, e ha messo in campo un’azione umanitaria lodevole, aprendo le frontiere con l’Ungheria e facendo entrare i rifugiati, andando addirittura a prenderli oltre il confine. Quindi è toccato alla Germania di Angela Merkel, protagonista di un’apertura e di una presa di posizione che ha indotto anche l’Inghilterra di Cameron a rivedere la sua estremista logica di chiusura. Anche Francia e Spagna adesso sono chiamate a fare la loro parte, in un meccanismo a catena scatenato dall’impatto emotivo delle ultime tragedie, documentate da quelle immagini crude che hanno girato il mondo. In pochi giorni, è stata messa all’angolo la retorica stucchevole della politica europea, ipocrita e crudele, perfettamente in sintonia con la logica della “cittadella fortezza”, incapace di dichiarare fuorilegge nuovi muri, nuove funeste marchiature, di isolare l’ondata razzista e populista che trova voci (e consensi) sempre più consistenti in troppi paesi dell’Ue, da est a ovest.
Il dramma certificato dalle foto ha creato un bivio delicato per chi manovra politicamente il timone delle principali democrazie europee: o continuare a far proclami sterili passando oltre e ignorando l’emozione e lo choc manifestati da molti cittadini, o rifarsi un’immagine, cercando di mettere un po’ di rispetto umano e di solidarietà dentro le proprie politiche. Non so quanto sia sincera questa spinta che la Merkel ha impresso sul tema dei rifugiati. Non so se il fatto che siano in gran parte siriani abbia reso più semplice questo cambio di direzione. Non so dire se si tratti in realtà di un calcolo politico. Non so nemmeno se Juncker fosse sincero quando affermava poco tempo fa (in un articolo pubblicato su Repubblica) che la sua idea di Europa è quella di un continente solidale, che accoglie, dà asilo e non costruisce muri. Non so quanto durerà tutto questo slancio umanitario, visto lo squallore imperante in molte nazioni, Italia compresa.
Quello che so, e che mi sta più a cuore di qualsiasi ragionamento, è che un cambio di rotta ufficiale, in un momento come questo, potrebbe davvero salvare l’Europa dalla deriva populista e xenofoba che la minaccia e che in questi giorni si trova finalmente in una posizione di minore popolarità. Di certo, la cosa più importante e concreta oggi è che questa svolta ha messo in salvo migliaia di persone che finalmente potranno trovare protezione e pace. Non è risolto nulla, ovviamente, non ci sono ancora atti concreti, ad esempio, sulla lotta al traffico di esseri umani, sul superamento degli accordi di Dublino, su quel permesso di soggiorno europeo che da anni chiediamo e che non si è mai realizzato per l’ostilità e gli egoismi dei diversi stati dell’Ue. Inoltre, c’è ancora un grosso problema per quel che riguarda gran parte degli Stati dell’Est dell’Unione, che sono preda di politiche pericolose e lontane da qualsiasi principio di accoglienza. Il caso di Orbàn e del suo muro in Ungheria è qualcosa con cui quest’Europa deve fare i conti. A ciò si aggiungano anche le chiusure a riccio di altre nazioni.
Insomma, la strada è tutta in salita. Ecco perché la speranza che davvero l’Europa cambi, non solo nei confronti dei rifugiati, ma anche dei cosiddetti “migranti economici”, ossia coloro che fuggono non dalla guerra ma dalla fame e che l’Ue continua a respingere e imprigionare in quote, appare ancora molto flebile.
Allora, nel guazzabuglio di dolori, tragedie, lacrime ed eventi che hanno caratterizzato le ultime settimane, preferisco rintracciare qualche piccola, concreta e necessaria forma di speranza in alcuni gesti semplici ma fortemente simbolici: un lungo applauso, le urla di gioia, i sorrisi, le mani che si stringono, gli abbracci, le lacrime di anziani tedeschi o austriaci che in passato sono stati profughi con le proprie famiglie, un bambino con un cartello di benvenuto e un cestino con i suoi giocattoli da donare ad altri bambini venuti da lontano. Ho sempre odiato gli applausi fatti di fronte al dolore di qualcuno, soprattutto quelli fatti durante i funerali; li considero inutili e, come nel caso ad esempio delle vittime di mafia, solo una stupida maniera di lavarsi la coscienza, di delegare le proprie responsabilità travestendole da emozioni. Ma quello alla stazione di Monaco di Baviera è stato il più bell’applauso che si potesse fare. Il più giusto. Perché quelle mani accoglievano dei sopravvissuti, erano un modo rumoroso per abbracciarli, per salutarli, per dirgli “ce l’avete fatta! E ce l’abbiamo fatta anche noi grazie a voi!”. Siamo tornati a respirare un po’ di umanità. Dietro quell’applauso commovente c’erano tante altre mani.
C’erano quelle di quei cittadini ungheresi che, osteggiati dal governo e dai militanti di estrema destra, portavano cibo, coperte e acqua ai profughi bloccati al confine o in cammino verso la frontiera. C’erano quelle dei cittadini austriaci che, dopo la tragedia del tir, hanno manifestato a Vienna per chiedere al governo di far entrare e accogliere i profughi. C’erano le mani degli spagnoli che manifestavano in Spagna per chiedere la stessa cosa. C’erano quelle dei tranvieri e degli autisti austriaci o dei semplici cittadini (non solo austriaci) che guidavano i propri mezzi, su rotaia o su strada, per andare a prendere i rifugiati in Ungheria e portarli in Austria. C’erano quelle degli islandesi che chiedevano al governo di aumentare il numero di ingressi previsti e di accogliere più rifugiati. C’eravamo tutti noi che da anni chiediamo umanità, accoglienza, solidarietà, non solo per chi fugge dalla guerra, ma anche per chi scappa dalla fame e dalla miseria, di cui l’Europa dal Dna coloniale è una delle principali responsabili.
Quell’applauso di semplici esseri umani verso altri esseri umani sopravvissuti all’orrore sarà pure il frutto di un’emozione momentanea, che con il tempo svanirà portando nuovamente pigrizia o indifferenza. Ma potrebbe anche essere, al contrario, il simbolo di un cambiamento, di una piccola e silenziosa rivoluzione dal basso che costringerà questo continente a non voltarsi più dall’altra parte. Di sicuro non si potrà più dimenticare, né tornare indietro o continuare a negare. Sono morte decine di migliaia di persone, il Mediterraneo è pieno di bambini finiti negli abissi, di ossa conficcate nei fondali, tra rocce e sabbia. Abbiamo visto foto e video tremendi senza che ciò smuovesse qualcosa. Abbiamo sentito raccontare e raccontato vicende terribili, piene di orrore, e nessuno, lì ai vertici, ha versato una lacrima o mosso una mano. Di migranti morti dentro i container di tir ne abbiamo visti e contati tanti, ma pochi europei sono scesi in piazza.
Oggi, le foto di quel bambino con la faccia sulla sabbia e di quei corpi senza respiro ammassati dentro un camion sono diventate un pezzo di Storia. Allo stesso modo dei bambini del Biafra alla fine degli anni ’60 o dell’uomo di fronte al carro armato in piazza Tienanmen nel 1989 o della bambina vietnamita nuda che fugge per strada dopo un bombardamento al napalm degli americani nel 1972. Immagini che scuotono il mondo. L’emozione di fronte a un orrore che diventa visibile può essere un motore, una spinta, ma non basta. Perché dietro le foto ci sono migliaia di altri esseri umani in questo momento in viaggio, intrappolati, umiliati, stuprati, uccisi dalla nostra arroganza, dal nostro egoismo, dalle scelte sconsiderate di chi governa. Ci sono migliaia di azioni che mancano, di misure che latitano. Qualcosa contro cui dobbiamo combattere ogni giorno. Una sfida culturale, politica ed economica, che dobbiamo affrontare senza più tentennamenti, sapendo che non abbiamo molto tempo, perché sull’altra sponda del Mediterraneo e in mezzo al mare l’orrore continua. Ogni secondo di ogni maledetto giorno.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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