Quando si chiede giustizia per l’assassinio di un innocente non lo si fa perché si pensa che così il dolore e la rabbia si possano lenire. Quelli rimangono in eterno, anche nel caso in cui i colpevoli venissero condannati e scontassero la pena per intero. Se la vittima poi è un familiare o un amico, non ci sono sentenze che possano colmare il vuoto lasciato da quello strappo inatteso, dalla barbarie che lo ha prodotto. Chiedere giustizia non è mai un fatto personale, una pretesa emotiva, ma un’esigenza di civiltà, di cui la giustizia è parte fondante. È anche un atto di generosità, perché si cerca di fare in modo che chi ha compiuto un delitto tremendo sia messo in condizioni di non nuocere e sia costretto a partecipare a un percorso di rieducazione e reinserimento.
In Italia, però, se chiedi giustizia, soprattutto quando ci sono di mezzo forze dell’ordine o militari, sei costretto prima di tutto a difenderti dalle accuse, dalle volgarità e dall’arroganza dei carnefici e dei loro sostenitori, a tutelare la dignità e la memoria di chi è stato ucciso e non può raccontare la sua verità, a polemizzare con questo o quel politico che a turno decidono di schierarsi e intervenire per tornaconto personale, per stoltezza o per pura crudeltà. Federico Aldrovandi è stato ammazzato, barbaramente picchiato, massacrato, lasciato agonizzare, privo di soccorsi. Pestato a sangue da quattro criminali che indossavano una divisa e di quella divisa avevano un’idea distorta, fatta di abusi, violenza e disumanità.
È stato ammazzato Federico, lo hanno riconosciuto i giudici che hanno condannato in via definitiva i quattro assassini a 42 mesi di carcere, tre dei quali però cancellati con l’indulto. Alla fine, dunque, hanno fatto solo sei mesi a testa. Tre di loro sono rientrati in polizia, destinati a servizi amministrativi. Nessuna sospensione, nessuna radiazione. La vita di un ragazzo diciottenne costa solo sei mesi di carcere e non impedisce di tornare a svolgere il proprio lavoro e di rappresentare lo Stato. Ma il punto non è questo.
C’è un’altra ingiustizia indecente: Federico è stato calunniato, così come la sua famiglia, sia dai sindacati di polizia e dai colleghi dei poliziotti assassini, che da esponenti politici come Giovanardi. Il processo, così, è mediaticamente diventato un luogo nel quale non si giudicavano solo i colpevoli ma anche la vittima, il suo presunto comportamento, la sua presunta resistenza, persino l’autenticità delle prove e delle perizie. Come avviene sempre quando succede qualcosa negli ambienti militari o di polizia: ricostruzioni false, depistaggi, dubbi sulla lucidità mentale delle vittime, anche se si tratta di persone che non avevano mai avuto un problema, anche se si tratta di un diciottenne che stava tornando a casa, solo, a piedi, disarmato.
La madre di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, ha subito un tremendo linciaggio mediatico, offese, persino lo smacco di una manifestazione di solidarietà ai poliziotti incriminati da parte di un sindacato di polizia. Lei non ha mollato, è andata avanti, guidata dalla voglia di verità e dalla speranza che certa gente che indossa la divisa senza onore venisse spogliata di quella divisa e non potesse più nuocere a qualcuno. Ha pensato agli altri questa mamma coraggiosa, ha pensato che altri ragazzi come Federico sarebbero potuti finire sotto i pugni, i calci e la bestiale violenza di gente simile. Ed è andata avanti, mentre su di lei si sfogavano le volgari bocche di Paolo Forlani, uno dei quattro assassini di Aldrovandi, del segretario del Coisp, Maccari, o dell’ex ministro Carlo Giovanardi.
Il loro odio, la loro grettezza, la loro disumanità hanno trovato le espressioni peggiori da dedicare a una madre alla quale è stato strappato un figlio, un innocente che ha avuto la colpa di finire nelle grinfie di un nugolo di esaltati, di individui pericolosi, di reietti che andrebbero espulsi dal corpo di polizia e da qualsiasi apparato pubblico. Quelle offese hanno oltrepassato il segno e hanno costretto, due anni fa, la mamma di Federico a rivolgersi ancora una volta alla magistratura, per chiedere che quella diffamazione continua terminasse, che si rispettasse il dolore di una famiglia e la dignità di chi non c’è più. Non è cambiato nulla, non sono arrivate decisioni, sentenze, non ci sono stati interventi di alcun tipo. La giustizia non concede mai il bis. E chi cerca tutela finisce per stancarsi.
Patrizia Moretti, così, ha rinunciato, ha rimesso le querele, non ne può più, è stanca di dover avere a che fare con le persone che da anni la tormentano, di doverle nominare, di dover commentare le loro continue offese. Basta. “Ritiro le querele – dice la Moretti – perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore. Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio”. Professionisti del male, gente che continua a vivere indisturbata, libera di oltraggiare, accusare, delirare. Nessuno li ferma, loro. Perché in questo Paese la violenza, anche quella verbale, dà meno fastidio della verità.
Ed è grottesco che, proprio mentre Patrizia Moretti decide di ritirare la denuncia, proprio mentre si continua a rinviare l’adozione di una normativa che punisca la tortura e le violenze da parte delle forze dell’ordine, in Italia il governo, con grande entusiasmo, annunci un inasprimento delle pene per scippatori e ladri di appartamenti. Un furto in casa o uno scippo possono essere puniti con una pena minima di tre anni, che può salire a quattro in caso di condotte violente. E ci può anche stare, se non fosse che praticamente è quanto possono darti se, indossando una divisa, uccidi un ragazzo inerme. Sempre che riescano a condannarti e a smascherare i depistaggi. C’è qualcosa che non torna. O forse torna perfettamente, in questo Paese fatto di controsensi e di malvagità. Ma per fortuna anche di gente meravigliosamente onesta e determinata come mamma Patrizia e la sua famiglia.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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