Il 23 maggio, da quel maledetto 1992, non è più un giorno qualsiasi. È ormai una data attesa, il momento del ricordo, della commemorazione, dei buoni propositi. Esattamente come il 19 luglio. Due date legate indissolubilmente, allo stesso modo di come sono state indissolubilmente legate la vita e il percorso professionale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Come accade da ventitré anni, ascolteremo tante parole, ci saranno i messaggi istituzionali, le promesse, l’impegno verbale a contrastare le mafie, ad ostacolare la loro capacità di infiltrazione nell’apparato statale, nel sistema economico e produttivo, perfino nella cultura di questa nazione che resta imprigionata nei suoi vizi peggiori.
Parole che, nella maggior parte dei casi, costituiranno il consueto spreco di fiato, l’ipocrita carezza sulla testa di un futuro che non riesce a non somigliare a questo presente fatto di scandali, corruzioni varie, leggi ingiuste, riforme reazionarie, isolamenti pericolosi. Si spenderanno elogi alla bravura e al coraggio di Falcone, alla sua intelligenza, alla sua capacità di sfidare i poteri forti, quei terzi livelli che insieme alla mafia hanno eliminato lui, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Si parlerà, forse, anche di loro, di quei ragazzi che sono stati sbriciolati mentre facevano il proprio lavoro, senza sosta, senza orari, cercando di esorcizzare ogni giorno la propria paura, provando a considerare un normale dovere quello che in realtà era un rischio immenso.
Saranno parole lontane mille miglia da tutte quelle azioni necessarie a scongiurare altre stragi, altri isolamenti, altri giochi sporchi e veleni e fango gettato contro chi prova a tirare su la schiena di uno Stato che vive di concessioni, più o meno lecite, di favori, di “cretini” che incontrano altri “cretini” e di “furbi” che li manovrano, al fine di ottenere quel che serve. L’Italia parlerà di Falcone, per un giorno in tanti si riempiranno la bocca con quel cognome così eloquente, sperando in tal modo di celare le proprie mancanze o di far dimenticare il proprio passato e le scelte attuali. Faranno la faccia seria e reciteranno una parte.
Ma che senso ha tutto ciò se poi non si fa funzionare virtuosamente lo Stato, se si decide di sedere accanto a chi la mafia l’ha favorita, se si fanno leggi che mettono l’acquolina in bocca ai mafiosi, se si approva un decreto (“Sblocca Italia”) che distribuisce autorizzazioni, soldi e potere alle mafie con il colletto bianco, se si consente agli imprenditori (tutti) di esercitare un enorme potere e di giocare con il destino dei lavoratori, se si permette agli enti previdenziali di detenere avidamente, come fossero propri, i soldi versati dai contribuenti in tanti anni di lavoro?
Non ha senso parlare del carisma di Falcone, inoltre, se poi si lasciano soli Nino Di Matteo e i magistrati antimafia, se si sottovalutano le minacce e se ancora si tergiversa sul bomb jammer, che oltre che per i giudici sarebbe strumento di sicurezza maggiore anche per le scorte, quelle di cui forse qualcuno, in questo 23 maggio, farà finta di ricordarsi. Non ha senso parlare di antimafia, se poi si realizza una legge elettorale che aumenta a dismisura il potere di chi vince (riducendo i meccanismi di controllo e di garanzia), o se si cerca di destrutturare e distruggere la scuola pubblica, che, seppure con i tanti problemi legati alle nevrosi riformatrici di ogni singolo governo che si insedia, è da sempre un baluardo dell’educazione antimafiosa.
Se non fosse stato per la scuola che ora tutti screditano, infatti, intere generazioni, a partire da quella di chi era studente negli anni ’80-’90, oggi avrebbero meno coscienza e sarebbero ancora più vulnerabili. La scuola ci ha raccontato storie, ci ha fatto incontrare fisicamente persone che combattevano e familiari di chi era stato ucciso. Ci hanno insegnato gli esempi, spinto a riflettere, a documentarci, a riportare nell’esperienza quotidiana ciò che imparavamo. In un momento nel quale l’antimafia era debolissima. Era una scuola finanziata pubblicamente, senza sponsor dietro cui avrebbe potuto nascondersi di tutto e senza presidi capaci di favorire gli amici degli amici rendendo così anche la scuola un luogo di clientele. La scuola pubblica ci ha insegnato a ribellarci e lo poteva fare perché aveva l’autorevolezza derivante proprio dal fatto di essere statale, di tutti noi e per tutti noi, finanziata dai cittadini, non privata, senza Cda, soci o dirigenti padroni.
Ecco, allora, se si vuole davvero onorare la memoria di Giovanni Falcone e della sua scorta lo si faccia operando nella giusta direzione, con i comportamenti, le decisioni, le azioni. Cercando di tirar fuori i comuni, le regioni, lo Stato centrale dalla palude degli interessi di potere, dalla promiscuità con predoni, avventurieri, criminali, capitani di industria che, in nome del profitto, passano sopra all’interesse collettivo, alla tutela dei diritti, alla salvaguardia dell’ambiente. Se si vuole rendere omaggio a Falcone, la si smetta di mettere ostacoli all’azione della magistratura antimafia che cerca la verità sulla famigerata trattativa e a tutti quei magistrati che indagano sui rapporti tra cricche affaristiche, crimine organizzato e politica.
Se si vuole onorare Falcone e la sua scorta, si faccia in modo di dotare i magistrati nel mirino e le loro scorte di tutti i mezzi necessari a lavorare al meglio e con la massima sicurezza. Se la politica e i vertici della magistratura, per una volta, vogliono risarcire davvero Falcone e Borsellino e gli altri caduti per la verità, la smettano di proseguire nei loro giochetti di potere fatti di nomine, bocciature, promozioni, regole plasmate appositamente per fregare questo o quello. Fino a quel momento, fino a quando non saranno compiute le azioni necessarie a favorire non le mafie ma, finalmente, coloro che le combattono e promuovono l’educazione alla legalità e alla memoria attiva, qualsiasi parola sarà sterile e assumerà il tono di una ipocrita consuetudine, sempre più desolante e priva di senso.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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