A volte mi capita di girare le regioni e le città di questo Paese, di incontrare persone, chiacchierare, dibattere. Ci sono cose che ricordo con più chiarezza e, tra queste, c’è sempre una frase, che ricorre con una impietosa regolarità: “È colpa dei giornalisti!”. L’opinione è diffusa e scorre anche davanti a quei colleghi che ci mettono la penna e la faccia, liberamente, lontani dai grandi “capoccia” che stabiliscono cosa debba far notizia e cosa no. Il fastidio per la categoria è evidente, tangibile. Non sono permessi sconti che ad altre categorie, a partire dalla politica, sono ampiamente concessi. Il politico può sbagliare, eclissarsi, aspettare che passi la piena, ricominciare a tessere la propria strategia e tornare a riproporsi. Ripulito e lindo, quantomeno nella scarsa memoria di gran parte dei cittadini.
Il giornalista no. Semplicemente perché, spesso, non è nemmeno un individuo, un soggetto a cui attribuire un errore specifico, ma piuttosto una massa anonima che sbaglia nel suo complesso, lasciando poco spazio alle sfumature, alle distinzioni. Una massa che talvolta assume i tratti somatici di due o tre figure chiave, quelle più evidentemente negative, che delineano una fisionomia, una sorta di etichetta difficile da rimuovere. Ciò non rende giustizia ai tanti bravissimi giornalisti che, ogni giorno, a proprio rischio, spesso con paghe da fame e senza tutele, svolgono egregiamente il loro lavoro, in una nazione nella quale sono tante le insidie per chi cerca di scrivere e raccontare la verità e tutto il lerciume che la imprigiona. Donne e uomini, giovani e meno giovani, che hanno nomi e cognomi, vissuti fatti di onestà, umanità, passione e sacrificio, e che non meritano di essere infilati nel calderone di un gruppo che presenta numerose sfaccettature. La campagna che certi partiti e movimenti, poi, fanno essenzialmente contro chi dissente dalle posizioni e opinioni espresse dai loro leader, non è accettabile e ha i tratti orridi di un rigurgito reazionario.
Detto ciò, però, deve essere chiaro che il mondo del giornalismo italiano non è certo una semplice vittima di disegni o aggressioni esterne. Perché se così fosse, sarebbe facilissimo replicare e difendersi, compatti e professionali, contrastando i tentativi di influenza o pressione provenienti dal di fuori di quel mondo. Come? Scrivendo la verità, smontando la retorica, la bugia, rispettando i principi contenuti in carte che oggi sembrano solo pergamene impolverate, evitando di diventare gli amplificatori di interessi politici ed economici, di strategie della paura, di progetti propagandistici. Se ad esempio, di fronte a casi di violenza perpetrata dalle forze dell’ordine, scriviamo che esse dovrebbero collaborare, identificando le mele marce e mettendole in condizione di non lavorare più dentro un corpo di polizia, per rendere giustizia a chi lavora onestamente e rispettando le regole che la divisa impone, perché poi non pretendiamo che l’organo di governo della nostra categoria intervenga a ripulirla dalle mele marce che ne sporcano l’immagine?
È una questione di coerenza. Soprattutto perché, nell’opinione pubblica, la percezione che si ha delle due figure (giornalisti e poliziotti) è molto simile e produce reazioni e convinzioni che si somigliano. Il caso di Tor Sapienza, prima ancora quello di Bologna e, in generale, tutto ciò che riguarda l’immigrazione, a partire dal tanto diffuso “allarme ebola”, hanno innescato un meccanismo pericoloso di cui una parte dei mass media sono responsabili. La quantità di disinformazione prodotta da giornali e trasmissioni tv è direttamente proporzionale allo spazio assegnato a personaggi che, senza valido contraddittorio né competenza, possono serenamente diffondere bugie e insulti, spacciando per verità ciò che appartiene piuttosto alla credenza popolare o alla superstizione. Continuo a chiedermi perché si invitino Salvini e Borghezio a parlare ovunque di immigrazione.
Continuo a chiedermi perché si permetta a certi giornalisti (spesso della tv pubblica) di costruire programmi assolutamente di parte, che non lasciano spazio ad un dibattito serio e nel quale i conduttori si lasciano andare a dichiarazioni (false e contrastate da dati ufficiali) che solleticano lo stomaco di un certo tipo di pubblico. Non capisco perché certa stampa stia costruendo uno spazio di consenso a Salvini, alla Lega e ai loro taciti alleati neofascisti, attraverso una distorsione sistematica della realtà e dei fatti avvenuti.
Ciò che invece mi appare chiaro è che l’Ordine dei giornalisti, tanto impegnato in una insensata frenesia burocratica, sembra aver perso di vista la realtà. Non ci sono interventi sanzionatori sul rispetto di quei principi deontologici che le carte di Treviso e di Roma (mai veramente attuate, ma sempre rimaste nell’armadio delle buone intenzioni) dovrebbero imporre. I vertici dell’ordine tacciono, preferendo impegnarsi alacremente nella somministrazione di corsi di aggiornamento (alcuni dei quali sfiorano il ridicolo) che i giornalisti dovrebbero frequentare obbligatoriamente (ma nessuno si è premurato di comunicare agli iscritti né i criteri né i tempi), pena la cancellazione dall’albo. Questa è la priorità secondo il nostro ordine.
Una regolamentazione burocratica diventa primaria rispetto alla morte del mestiere di giornalista, dovuta non alla presenza dei cosiddetti “abusivi” (ossia quelli privi di tessera), tra cui rientrano anche molti giovani coraggiosi il cui unico obiettivo è raccontare la verità, ma alla vergognosa fisionomia tracciata da chi, all’interno della categoria, agisce da anni come microfono del potere o come strumento di sollazzo dei propri editori. Non riesco a trovare un senso ad una struttura che, oltre ad avere un’origine poco lusinghiera, continua a non intervenire sulla deriva culturale di questo Paese alla quale i suoi stessi appartenenti contribuiscono. Sulla carta stampata, sul web e soprattutto nei salotti televisivi. Mi chiedo ancora se abbia un senso che questa struttura esista, unica nel contesto dei paesi democratici. Mi chiedo ancora se, per scrivere, abbia un senso avere in tasca un tesserino che ti dice che appartieni allo stesso ordine di chi pompa odio e diffonde ciò che il potente o il propagandista di turno vuole diffondere.
Mi viene difficile replicare a chi dice “È colpa dei giornalisti”, se poi chi ne governa l’organizzazione pensa più alle facezie burocratiche che a sanzionare e mettere al bando chi sporca l’immagine di un’intera categoria, prestando il fianco a chi l’attacca strumentalmente. Viene molto più facile, a me che sono iscritto a questo incomprensibile e costoso albo, spiegare che il “Giornalista-Giornalista” Giancarlo Siani, ad esempio, è morto per una verità scritta senza tesserino in tasca, mentre il mondo dell’informazione, quella dei “Giornalisti-Impiegati”, con la foto sul tesserino e i relativi benefit, taceva e chiudeva gli occhi e le orecchie.
Mi chiedo dunque, chi ha ragione. Galli della Loggia, quando, con il suo irritante sorriso da vetusto borghese, afferma che a Tor Sapienza la politica non fa nulla di male e fa il suo mestiere cavalcando l’odio razziale, o chi sostiene che il razzismo è un male assoluto e denuncia una pericolosa strategia sovversiva che i mass media stanno contribuendo a costruire e le cui conseguenze potrebbero essere terribili? Conta di più l’etica del giornalismo di cui scriveva Pippo Fava o l’atavico compromesso tra editoria e politica? La risposta la lascio ai “capoccia” e agli stolidi amanti delle regole inutili che puzzano troppo di casta.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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