Le scelte di Renzi e del suo governo proseguono sulla strada del grande inganno. Il presunto rilancio dell’occupazione, vera e propria emergenza nazionale, ha assunto i caratteri dell’arbitraria concessione alle imprese di una piena libertà di manovra, mentre nulla si intravede sulla reale possibilità di creare sbocchi lavorativi per milioni di giovani e di disoccupati. Il decreto Poletti sul lavoro, in vigore dallo scorso maggio, e il cosiddetto “jobs act”, la legge delega sul lavoro in esame ora alla Camera dei deputati, sono infatti i filamenti di una tessitura che avvantaggia solo gli imprenditori e riduce i diritti dei lavoratori. La nuova legge Poletti ha esteso i contratti a tempo determinato fino a 36 mesi senza l’obbligo per le imprese di giustificarne il motivo, consentendo il rinnovo ogni 6 mesi per ben 5 volte. Per i contratti di somministrazione a tempo determinato, ex lavoro interinale, sono possibili 6 proroghe. Nel caso ipotetico che le aziende utilizzassero il tempo determinato oltre i 36 mesi, debordando dal termine, non è prevista l’assunzione obbligatoria ma una semplice sanzione amministrativa.
Anche sull’apprendistato si alleggerisce l’obbligo del piano formativo individuale e, per le aziende sopra i 60 dipendenti, si diminuisce la percentuale di assunzioni a tempo determinato (dal 50 al 20/%). Il “jobs act”, se non verrà modificato, darà ulteriori margini alle imprese per gestire in modo quasi unilaterale il rapporto di lavoro. Il previsto contratto a tutele crescenti, sbandierato come fonte di ampi margini di crescita occupazionale, in realtà consente ai datori di lavoro la possibilità di un forte condizionamento dei nuovi assunti che, non godendo di alcuna tutela per eventuali licenziamenti (ad eccezione di quelli discriminatori), potrebbero essere costretti a sottostare anche a condizioni vessatorie pur di mantenere il posto di lavoro. Ma il disegno politico del governo Renzi è ancora più perverso. L’orientamento di eliminare il diritto al reintegro per i licenziamenti illegittimi per motivi economici, prevedendo solo un semplice indennizzo, e di riformulare una griglia per quelli comminati ingiustamente per motivi disciplinari, rappresenta un ritorno indietro senza precedenti.
La stessa riforma Fornero, che nel 2012 aveva già ritoccato il contenuto dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, appare quasi “angelica” di fronte ad una logica quasi filo padronale: un termine caduto in disuso che riemerge dalle pieghe del renzismo. È tutto l’impianto della legge delega che non appare accettabile. Il preannunciato riordino della giungla dei contratti sembra ridursi a pochi casi, mentre rimane irrisolta l’eliminazione dei contratti atipici e delle finte partite iva e non c’è traccia di un drastico giro di vite sul lavoro in nero. La possibilità del demansionamento (cioè l’opportunità di modificare le mansioni dei lavoratori sulla base di necessità tecniche e organizzative aziendali) e l’introduzione dei controlli a distanza dell’attività produttiva dei lavoratori sono altri aspetti che fanno ripiombare il mondo del lavoro negli anni più bui delle logiche fordiste, che imperavano nelle fabbriche negli anni ’50 e ’60.
Un attacco diretto e strisciante a una delle leggi di maggiore civiltà della storia del nostro Paese: lo Statuto dei lavoratori. Una legge che, dopo gli anni del brutale sfruttamento nei posti di lavoro, delle repressioni e degli eccidi di inermi lavoratori dai governi polizieschi del centrodestra italiano, il movimento dei lavoratori era riuscita a conquistare per una reale democrazia nei posti di lavoro e per la tutela di diritti fondamentali, che la Costituzione, nei suoi principi fondativi, aveva fissato. All’altare della flessibilità, di questo feticcio che, come sostengono numerosi economisti, non ha prodotto alcun vantaggio per l’occupazione, il governo Renzi sacrifica dunque la storia complessa e spesso drammatica dei lavoratori italiani. È vero che in un mondo globalizzato devono essere fatte scelte di cambiamento e che bisogna adeguare gli strumenti di produzione e di lavoro, ma ciò non può avvenire limitando le tutele e assegnando alle imprese il compito (o potere) di stabilire i diritti e i doveri.
Ci sono colpe storiche di chi ha governato il nostro Paese. La precarietà che oggi soffoca e opprime una massa enorme di lavoratori giovani e meno giovani è il frutto malato dei diversi governi degli ultimi anni, sia di centrosinistra che di centrodestra. La deregolamentazione dei diritti iniziò, infatti, nel 1997, con il decreto Treu, ministro del governo Prodi, con l’invenzione dei co.co.co. e con il lavoro interinale. È quindi proseguita con le aberranti scelte della legge 30 del 2003, voluta dal ministro Maroni e impropriamente attribuita al giuslavorista Marco Biagi, vittima della follia omicida delle brigate rosse, con l’introduzione dei contratti a progetto, estendendo in modo abnorme i meccanismi di flessibilità. Oggi Renzi prosegue nell’opera di smantellamento di ogni certezza di futuro e di vita per chi trova o aspira a trovare un lavoro. Stemperare questa logica deformante, come si intravede nel “jobs act”, con la previsione di un assegno di disoccupazione universale, per il quale non esistono le risorse economiche sufficienti, o con l’estensione dei contratti di solidarietà per aumentare l’occupazione, è una ben misera consolazione.
Il governo Renzi non ha fatto ciò che era urgente, ma si è incuneato in un percorso che è neoliberista nelle concessioni fatte alle grandi lobby (vedi decreto Sblocca Italia), allineandosi alle peggiori concezioni della destra economica. Ha reso gli imprenditori una categoria virtuosa, senza distinguere tra erba cattiva e realtà positive. Ha fatto propaganda di cambiamento ma non ha messo mano a nessun provvedimento in grado di bloccare processi di declino del sistema produttivo ed economico dell’Italia. Era necessario un piano straordinario di investimenti pubblici per ridare energia al lavoro e ai consumi interni e nulla è stato fatto. Occorreva accelerare progetti su innovazione e ricerca, mettere mano ad un piano industriale che ridesse centralità all’economia reale e tagliasse le ali alla speculazione e ai giochi sporchi delle lobby finanziarie, ma su questo c’è solo silenzio.
Oggi la Cgil ha chiamato a raccolta in una manifestazione nazionale a piazza San Giovanni, a Roma, i suoi iscritti e tutti i lavoratori italiani contro le scelte sbagliate di questo governo. Ha dichiarato che è solo l’inizio di una mobilitazione che deve far cambiare rotta a Renzi. Una decisione giusta in sé, anche se tardiva. Peggio ancora il ruolo di Cisl e Uil, prigioniere storicamente, tranne rari e isolati casi, della loro incapacità di essere forze propulsive del cambiamento. Anche i sindacati, infatti, hanno pesanti responsabilità per non aver saputo comprendere ed essere punto di riferimento di grandi masse di lavoratori precari e sfruttati. Sono responsabili per non avere saputo contrastare la diffusione a macchia d’olio del lavoro nero, del nuovo schiavismo degli immigrati nelle campagne, nell’edilizia, nei servizi.
Anche la Cgil, che pur rimane il sindacato con maggiore visione complessiva, ha balbettato, creando organismi, come i “Nidil”, privi di una vera efficacia. Il sindacato italiano ha contratto un debito enorme con milioni di persone che non ha saputo difendere. La Cgil adesso cambi strada, imbocchi la via di una vera rivolta sociale. Le chiacchiere di Renzi, osannate dai pistolotti dei suoi collaboratori, i risibili tentativi di rappresentarsi come il nuovo alfiere di una nuova Europa, sottratta alle grinfie dei centri di potere finanziario, hanno bisogno di risposte forti che lo costringano a cambiare strada, a dare ascolto a chi vive con grande difficoltà e a chi vuole che esista un presente e un futuro per sé e per i propri figli.
Salvatore Perna -ilmegafono.org
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