Una presa di coscienza collettiva dopo quasi un anno di leggi d’emergenza, epurazioni, limitazione dei diritti civili e arresti indiscriminati di politici, intellettuali, attivisti e giornalisti in Turchia. È quello che si propone la “Marcia della giustizia” organizzata dal Partito repubblicano del popolo turco (Chp), maggiore forza politica dell’opposizione, per chiedere il ripristino dello Stato di diritto nel paese guidato da Recep Tayyip Erdogan. “Adalet”, giustizia in turco, è lo slogan della manifestazione partita giovedì 15 giugno da Ankara, dove migliaia di persone si sono ritrovate per protestare contro la condanna a 25 anni di prigione di Enis Berberoglu, deputato del Partito repubblicano del popolo, accusato di aver divulgato segreti di Stato nel caso del presunto trasferimento di armi turche a gruppi islamisti in Siria.

Il Chp chiede la liberazione del deputato e l’intento dei manifestanti è marciare verso Istanbul, un percorso di 450 chilometri che dovrebbe concludersi tra 22 giorni nella prigione di Maltepe, dove è rinchiuso Berberoglu. Il percorso prevede tappe di circa 20 chilometri al giorno. “Non c’è pace in un paese dove la giustizia è inesistente. Vogliamo vivere in pace”, ha detto il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu dando il via alla nuova protesta che in pochi giorni si è estesa ad altre città della Turchia e sta suscitando l’attenzione dei cittadini.

“È una marcia per la giustizia. In un paese in cui le prigioni sono piene non c’è giustizia”, ha spiegato il leader del Chp in riferimento alle purghe operate dalle autorità turche nei mesi successivi al fallito golpe del 15 luglio scorso. Sono decine di migliaia le persone licenziate e arrestate, nella magistratura, nelle forze armate e di polizia, e nelle istituzioni pubbliche, accusate di far parte della rete facente capo al predicatore islamico Fethullah Gulen, nemico giurato del presidente Erdogan, che vive in esilio volontario negli Usa dal 1999.

Aykan Erdemir, ex parlamentare del Chp che ora lavora come analista a Washington, ha paragonato la marcia di oggi a quella del 1991 ad Ankara, quando oltre 100 mila minatori turchi scesero in piazza per reclamare i loro diritti. Altri hanno fatto il parallelo con le proteste di Gezi Park dell’estate del 2013, che sfociarono in violenze attribuite alle forze di polizia e si conclusero con nove morti e migliaia di feriti. “Ci sono stati più volte appelli da parte di diversi segmenti dell’opposizione turca perché il Chp portasse nelle strade la politica dagli stretti confini del parlamento”, ha detto Erdemir in un’intervista pubblicata dal “New York Times”.

Non è quindi l’inizio di una rivoluzione, ma una presa di coscienza collettiva, un risveglio della società civile dopo quasi un anno di torpore. La condanna di Berberoglu, vice presidente del comitato direttivo del Chp responsabile dei rapporti con la stampa, è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’accusa è quella di aver consegnato un video contenente segreti di Stato a dei giornalisti. Nel video compariva un camion dell’intelligence carico di armi destinati a “ribelli islamisti” siriani.

Can Dundar ed Erdem Gul, i due giornalisti del quotidiano indipendente “Cumhuriyet” che avevano pubblicato l’inchiesta, sono stati arrestati e successivamente rilasciati grazie a una sentenza della Corte costituzionale. Berberoglu, invece, condannato questa settimana in primo grado, è già in carcere, in attesa del processo d’appello, mentre migliaia di persone proseguono la loro marcia verso Maltepe, la prigione in cui è rinchiuso.

G.L. -ilmegafono.org