La crisi economica che sta mettendo in ginocchio il nostro paese ha visto un’intera popolazione succube di governi incapaci, neoconservatori e, come amaro regalo finale, una congregazione di falsi riformatori. Questi ultimi, ancora più pericolosamente e in modo subdolo, stanno tentando di lacerare il tessuto democratico di una società che, pur tra mille contraddizioni, è riuscita a trovare nella sua storia momenti di reazione positivi contro le derive reazionarie e gli scippi dei propri diritti. Dopo le leggi ad personam e i tagli indiscriminati delle tutele sociali dell’incubo berlusconiano, e dopo le scelte rigoriste, care ai falchi europei, del governo Monti, oggi, in piena recessione, dobbiamo fare i conti con un governo guidato da un propagandista come il premier Renzi, che sembra essersi prefisso l’obiettivo di smantellare (e non di favorire) la crescita di un processo democratico, che chiede dal basso scelte di cambiamento e il rispetto delle vocazioni dei territori e degli interessi reali delle comunità.
Il decreto, denominato “Sblocca Italia”, è un condensato di scelte normative e di previsioni di provvedimenti che fanno diventare quasi insignificanti i pur gravi errori dei governi precedenti. Senza considerare il rilancio della politica degli inceneritori, dei rigassificatori (senza tenere conto, a quanto pare, dei principi di precauzione di impianti classificati a rischio di incidente rilevante) o le esemplificazioni in materia di infrastrutture e di rilancio dell’edilizia, i punti che appaiono mostruosi e inaccettabili, densi di effetti devastanti, sono quelli che fissano le nuove regole per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali. Renzi, in questo campo, anziché orientarsi ad un modello di sviluppo che privilegi le fonti energetiche alternative e rinnovabili, dimenticando il valore strategico di una politica di efficienza energetica, sceglie in modo dissennato la via delle fonti fossili, sposando totalmente le tesi dei petrolieri, il cui unico interesse è estrarre petrolio e gas, qualunque sia il costo per le popolazioni e per l’ambiente.
L’Italia, con il suo patrimonio unico di bellezze naturali e le sue grandi risorse agricole e culturali, diventa così il terreno delle più imprevedibili scorribande dei cercatori di gas e di “oro nero” (vedi immagine 1 nella gallery sotto l’articolo). “L’Italia non è il Texas o il Kuwait ma anche noi abbiamo il petrolio”, sostengono da anni gli esponenti delle associazioni dei petrolieri e del bitume (Assomineraria – Siteb) o esponenti di società di ricerca e consulenza sull’energia come Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia; tutti insieme si scagliano contro i comitati che in tutte le parti d’Italia hanno intrapreso durissime battaglie per difendere il futuro dei loro territori e la possibilità di uno sviluppo ecosostenibile. Renzi e il suo governo stanno dalla parte dei sostenitori del petrolio, pur essendo consapevoli che le riserve di petrolio e di gas stimate sul territorio nazionale e nei mari italiani, anche se venissero estratte interamente, non eliminerebbero mai la dipendenza dagli approvvigionamenti esterni.
Come uno starter il premier sta dando il via ad un’orda di grandi e piccole società cacciatrici di idrocarburi, che stanno affilando come nuovi barbari le punte delle loro trivelle per trasformare i luoghi più belli del territorio nazionale in pustole maleodoranti e inquinanti. Per rimuovere ogni ostacolo il decreto Sblocca Italia afferma che “le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili” ed espropria le regioni, per gli impianti sulla terraferma, delle competenze per il rilascio della valutazione di impatto ambientale. Alle regioni rimane solo la possibilità di un parere con tempi prefissati, mentre tutti i poteri vengono accentrati a livello centrale. Con un unico titolo concessorio, che unifica prospezione e coltivazione dei giacimenti, il ministro dello Sviluppo Economico consente alla società autorizzata, per un periodo di 30 anni, prorogabili fino a 50, lo sfruttamento dei pozzi.
Per le ricerche e le trivellazioni in mare non è necessaria neanche questa “furberia”, perché il demanio marittimo è di competenza dello Stato. Una logica aberrante, definita scellerata da Legambiente. La spiegazione è evidente. L’attuale processo di estrazione di petrolio e gas rappresenta appena il 10% del fabbisogno energetico nazionale: circa 11 milioni di tonnellate equivalenti (l’insieme degli idrocarburi), delle quali solo poco più di 500.000 provenienti dalle piattaforme marine, rispetto ad un fabbisogno energetico di circa 120 milioni di tonnellate equivalenti (circa 70 milioni di tonnellate di petrolio e poco più di 70 miliardi di metri cubi di gas). L’intero piano di invasione di terra e di mare ideato dalle lobbies del petrolio e avallate dalla scelta del governo Renzi, potrebbe portare la percentuale a circa il 18-20%, lasciando inalterata la nostra dipendenza dalle importazioni.
Sulla terraferma, a pagare il conto tremendo di questa logica da far west sarebbe ancora di più la Basilicata, che già fornisce l’80% degli idrocarburi nazionali, con la devastazione di nuove aree, altre zone dell’Irpinia ed anche aree del centro-nord. Ma il dato più impressionante è la scelta di riempire di piattaforme petrolifere tutte le aree marine italiane (Adriatico, Tirreno, mare di Sardegna e l’intera fascia costiera del canale di Sicilia), nonostante le stime dei giacimenti da sfruttare non supererebbero quantità superiori a 10 milioni di tonnellate (come denunciato da più parti e soprattutto da Greenpeace). La Sicilia entra così nel vortice di una follia distruttiva che mette in serio pericolo non solo il mare ma tutti i litorali del canale di Sicilia. L’isola, già martoriata dalle decisioni assunte da tempo dai suoi governi regionali che, utilizzando la competenza esclusiva (art.14 dello Statuto introdotto con legge costituzionale) in materia di miniere e di attività estrattive, hanno consentito il libero accesso di società petrolifere e le attività di trivellazione, rischia adesso di venire colpita ancora più duramente.
Fortunatamente zone di grande pregio sono state salvate dalla lotte straordinarie delle comunità di importanti parti del territorio siciliano, anche se i pericoli non sono stati rimossi per la mancata formale revoca delle concessioni. Sulla terraferma, la speranza che il governo Crocetta potesse porre fine all’incalzare delle richieste di vecchie e nuove società petrolifere è stata vanificata dal protocollo d’intesa sottoscritto nel giugno scorso tra il presidente della Regione e l’Assomineraria, l’Eni, l’Edison e la Irminio srl, interfaccia della texana Mediterrranean Recources LLC. Il presidente Crocetta con questo atto ha sconfessato le sue precedenti posizioni di contrarietà alle trivellazioni e in questo modo dà sostegno a nuove iniziative, come quella che l’Irminio srl vuole avviare in territorio di Scicli.
Il pericolo più grave, però, viene dal mare, dove sono in procinto di essere sbloccati i permessi per una nuova piattaforma (la Vega B) al largo di Pozzallo e dove sono in attesa di sblocco le istanze presentate da una serie di società piccole e grandi che avvierebbero ampie attività di prospezione. I mari di Vittoria, di Portopalo di Capo Passero, di Pachino, Noto, Siracusa, Acate, Ispica, Pozzallo, Avola, Modica, Santa Croce Camerina, Ragusa, Scicli sono nel mirino della Schlumberger Italiana S.p.a (vedi immagine 2 nella gallery), filiale dell’omonima società texana che, in un’area di 2.109 km2 denominata “d1 C.P-.SC”, svolgerà le sue operazioni con la tecnica dell’airgun. La Schlumberger dovrebbe realizzare le sue operazioni anche nella zona denominata “d1 G.P-.SC” (4.209 km2), che tocca i comuni di Gela, Menfi, Porto Empedocle, Marsala, Palma di Montechiaro, Ribera, Petrosino, Realmonte, Pantelleria, Siculiana, Campobello di Mazara, Licata, Montallegro, Cattolica Eraclea, Agrigento, Sciacca, Campobello di Licata, Butera, Castelvetrano, Lampedusa e Linosa, Mazara del Vallo. Ma sono in corsa altre istanze e richieste di ricerca di società olandesi, irlandesi e anche giapponesi.
Ma cosa è la tecnica dell’airgun? Si tratta di una tecnica, come hanno chiarito diversi studi, per sondare la composizione degli strati sottomarini, che viene realizzata sparando bombe di aria compressa a 140 atmosfere in grado di produrre onde sismiche riflesse da cui viene ricavata la composizione degli strati del sottosuolo. Gli effetti possono essere disastrosi per la fauna e la flora marina, possono sconvolgere l’habitat e desertificare le aree colpite. I più esposti sono i mammiferi marini che possono subire danni mortali. Il bombardamento è senza sosta. Uno sparo ogni 5/10 minuti. Queste attività, fra l’altro, si svolgerebbero o a ridosso delle acque territoriali o in qualche caso entro le 12 miglia.
È una prospettiva raggelante, le cui conseguenze su tutte le aree costiere non sono nemmeno ipotizzabili. Va solo sottolineato che, dall’esame delle istanze presentate, si nota una voluta sottovalutazione degli effetti di questo procedimento. Non viene chiarito che l’inquinamento acustico (calcolato attorno alla intensità elevatissima di 468 decibel) si può propagare per decine di chilometri e si sottovaluta l’effetto di sommovimento degli strati geologici del bombardamento su fondali di zone a rischio sismico come quelle interessate, sulla base di lacunosi studi geologici.
Da qui la necessità che l’intera comunità siciliana (il Comune di Noto ha già deliberato, con delibera n° 221 del 23 settembre 2014, parere negativo alle trivellazioni petrolifere nel Canale di Sicilia) sappia rapidamente creare un vasto schieramento per impedire che si intervenga soltanto dopo il compimento di un possibile disastro annunciato. Il governo Renzi deve sapere che questa follia potrebbe essere la sua Waterloo.
Salvatore Perna -ilmegafono.org
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