Taranto, un tempo fiorente colonia della Magna Grecia, sta divenendo una sorta di terra di confine dove si scontrano il bene e il male, l’emblema di una società divisa in due fazioni: carnefici e vittime; da un lato chi pone davanti ogni altra cosa il proprio profitto e dall’altro chi chiede semplicemente il rispetto per la vita e la salute sua e dei suoi cari. L’argomento di scontro, ormai da moltissimi anni, è l’Ilva, l’acciaieria che quotidianamente, con i suoi gas tossici, avvelena tantissimi cittadini tarantini condannandoli ad affrontare gravissime malattie e numerosi lutti. È stato proprio il dolore che nel tempo l’acciaieria ha inflitto ai tarantini a scatenare questa battaglia, a portarli a rinunciare al loro ruolo di vittime passive e ad impegnarsi per cambiare il proprio futuro. Negli ultimi anni sono state tante le associazioni ambientalistiche che si sono costituite nella zona per lottare contro il disastro ambientale che si continua a  consumare sotto gli occhi di cittadini non più accondiscendenti.

Una vera e propria lotta per la sopravvivenza, mossa dalla disperazione e dalla paura, che non si ferma malgrado gli ostacoli in cui si imbatte. Non da ultimo il decreto legge 155/2010 (il cosìdetto “decreto salva Ilva”) approvato lo scorso agosto che, bloccando una legge entrata in vigore il 1°gennaio del 1999, ha sospeso, nei Comuni con più di 150 mila abitanti, il divieto di emissioni di benzo(a)pirene superiori al limite di 1 ng/m. Un decreto che sostanzialmente salva l’interesse economico dei grandi inquinatori italiani e lo antepone alla salute dei cittadini che hanno l’unica colpa di abitare a ridosso di zone industriali. Circostanza dimostrata dall’accoglimento da parte della Commissione Europea del ricorso che i Verdi hanno proposto avverso tale decreto; il governo italiano (avvezzo alle infrazioni in ambito europeo) sarà ancora una volta chiamato a giustificarsi, questa volta per spiegare perché ha concesso, con tale provvedimento normativo, la possibilità di emettere gravi inquinanti per la salute e l’ambiente oltre i limiti consentiti.

Una lotta che vede impegnate anche le istituzioni che, in questa zona tanto disgraziata, hanno finalmente deciso di scendere in campo al fianco dei cittadini. Eppure anche loro hanno finito per scontrarsi con l’indifferente cupidigia dei responsabili Ilva quando hanno chiesto che lo stabilimento iniziasse ad utilizzare per i propri processi industriali l’acqua proveniente dall’impianto di affinamento “Gennarini Bellavista” di Taranto al posto dei 250 litri al secondo che preleva dal Sinni. La risposta dei responsabili dell’acciaieria, dopo ben 4 tavoli tecnici sull’argomento, è stato un secco ed immotivato no che ha colto un po’ tutti di sorpresa.

“Mi stupisce e mi dispiace moltissimo – ha dichiarato l’assessore regionale Amati – che, di fronte ad una mia specifica richiesta di disponibilità a sostituire l’acqua destinata al potabile prelevata dal Sinni con quella super affinata proveniente dall’impianto Gennarini Bellavista di Taranto, in cambio di un contributo economico da destinare ad Aqp per la gestione di quest’ultimo, con un risparmio rispetto a quanto attualmente viene versato da Ilva all’Eipli e alla Regione Basilicata, l’Ilva abbia risposto con un secco no”. “Il problema – ha continuato l’assessore – è che gli esponenti del gruppo di Taranto non si sono resi conto che i loro interlocutori erano istituzioni pubbliche come la Regione Puglia, la Provincia e il Comune di Taranto, oltre al gestore pubblico del Servizio idrico integrato, ovvero l’Acquedotto pugliese, sottovalutando quindi l’interesse dei cittadini e del territorio in questa vicenda, nonostante il nostro sforzo di tenere conto anche degli utili industriali e delle esigenze aziendali”. I

l problema è che l’Ilva non guarda in faccia nessuno. A combatterla ormai scendono in campo tutti i diversi settori sociali, dal sindacale al politico, dal medico allo scolastico. Alcune scuole avviano progetti nei quali si spiega ai bambini il grave impatto che le emissioni dell’Ilva hanno su ambiente e salute; i medici non nascondono l’eccessivo tasso di incidenza di neoplasie e tumori nella zona né la loro connessione con l’inquinamento; le mamme di Taranto si improvvisano avvocati, giornaliste e quant’altro per smuovere le coscienze e per pulire l’aria che i loro bambini respirano ogni istante.

Proprio in questi giorni il Comitato Donne per Taranto sta consegnando al Sindaco  e alle altre autorità competenti  il dossier “Salvate i nostri bambini”, attraverso cui chiede che sia avviata una seria indagine epidemiologica per verificare la correlazione tra malattia/morte – inquinamento, ossia l’esistenza o meno di un eccesso di mortalità nel quartiere Tamburi, quello accanto al quale sorge l’acciaieria e tutto il polo industriale tarantino. A supporto del dossier il comitato ha organizzato, per il prossimo 13 febbraio, una raccolta firme in Piazza della Vittoria a Taranto. Chiunque avesse superato il dubbio amletico tra profitto e salute è invitato a portare il proprio contributo a questa lotta, per sé e per i suoi figli, perché l’accondiscendenza talvolta è la peggiore delle complicità.

Anna Serrapelle -ilmegafono.org