Marcello Dell’Utri. Basterebbe solo il nome per non avere dubbi, per spazzare via qualsiasi ingenuità patologica circa la possibilità di una incredibile coincidenza. Incredibile, appunto. Prima la brevissima latitanza spacciata per viaggio di salute in Libano, poi la storia dei due legali contemporaneamente infermi e impossibilitati a presenziare in Cassazione, martedì 15 aprile, nell’ultimo atto del processo. Quello che potrebbe confermare la condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La speranza, forse, è quella di arrivare al raggiungimento del termine per la prescrizione (1° luglio). L’intenzione, di sicuro, è quella di conquistare l’impunità, un’opzione possibile in un Paese nel quale, ad esempio, un evasore condannato per frode fiscale, dei quattro anni di pena inflitti in via definitiva se ne vede cancellare tre per indulto, scontando il rimanente ai servizi sociali, con quattro ore a settimana di attività in una casa di riposo per anziani.
Tutto è possibile in Italia. Così, oltre alla fuga (nessuno aveva pensato di togliere il passaporto a Dell’Utri, ma guarda un po’…), ci si mettono i certificati medici dei legali. Il rinvio, alla fine, lo hanno ottenuto (prossima udienza il 9 maggio) ma il presidente del collegio almeno ha chiarito che i termini per la prescrizione sono sospesi. Intanto, il co-fondatore di Forza Italia, colui che ama i libri antichi e stima gli stallieri mafiosi, è stato ricoverato in ospedale a Beirut, decisione presa dopo che un cardiologo che lo ha visitato avrebbe ritenuto necessario monitorare clinicamente le sue condizioni.
Beirut, Libano: Dell’Utri ha scelto bene la nazione nella quale catapultarsi prima della pronuncia della sentenza, dal momento che nel paese mediorientale sarà molto complicato ottenere l’estradizione. Non solo per la tempistica, ossia il termine (30 giorni) entro cui le autorità libanesi devono ricevere i documenti con la richiesta, ma soprattutto perché il Libano non prevede nel suo ordinamento il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Se poi l’ex senatore dovesse trovarsi in difficoltà, potrebbe sempre ripetere il colpo di scena, opponendosi alla estradizione per via di una presunta connotazione “politica” della stessa. Insomma, rimarrebbe in Libano, che potrebbe rifiutare di restituire l’imputato (magari nel frattempo già condannato) alle autorità italiane.
Non ci sarebbe da stupirsi. Anzi, se qualcuno ancora pensa che Dell’Utri non sia capace di arrivare a tanto o è un ingenuo cronico o è in malafede. Il quadro ormai è chiaro nonostante gli interrogativi sugli sviluppi futuri. Tornerà? Non tornerà? Poco importa, perché se anche si dovesse arrivare alla condanna, possiamo facilmente prevedere che l’ex senatore non andrà mai dietro le sbarre. Per motivi attinenti alla tenuta del sistema politico. Ci sarà di sicuro una ragion di Stato che interverrà. Perché, non ci stancheremo mai di scrivere, ripetere, raccontare che il co-fondatore di Forza Italia è un calibro grosso.
Che sia in salute o in malattia, è sempre lo stesso che dopo la condanna in Appello, disse: “Mangano è un eroe perché ha la lampo a tenuta stagna. Purtroppo non capita a tutti questa fortuna: io, per esempio se mi trovassi in carcere, tipo se venisse confermata in Cassazione la mia condanna e io dovessi finire dentro per quattro anni, non so se saprei mantenere proprio completamente chiusa la cerniera lampo”. Un messaggio chiaro, ripetuto ancora una volta, come aveva già fatto in passato. Tutti a ricordare e calcare l’immoralità di dare dell’eroe a un mafioso (elogio ribadito, non a caso, proprio in questi giorni anche dal fratello di Dell’Utri), mentre il punto focale, quello da sottolineare è un altro, cioè la ragione primaria di quella definizione immorale: il silenzio di Mangano, l’esser riuscito a portarsi i segreti nella tomba.
Dell’Utri non è mai stato disposto a seguire quell’esempio seppure ammirato. Ha l’incubo del carcere. Non ha voglia di resistere. Parlerebbe, tirandosi dentro e portando a fondo chissà quanti in questo momento tremano. Per tale ragione, è difficile credere che questa vicenda si possa chiudere il 9 maggio e soprattutto che si possa concludere, anche nel caso in cui arrivasse una condanna, con l’espiazione della pena dentro un penitenziario, come avviene per un delinquente comune o per un boss mafioso acciuffato e riconosciuto colpevole.
Dell’Utri, a patto che davvero torni in patria anche in caso di condanna, come sostengono il fratello e il legale, non pagherà mai. Perché, forse, ciò aprirebbe una voragine profonda e incandescente dentro cui brucerebbero rapporti, equilibri e personaggi che popolano i palazzi del potere e le istituzioni da più di venti anni. E nell’Italia dei gattopardi, dei divi e dei caimani non sembra esserci spazio per la verità e per la giustizia risolutiva. Questo Paese si regge su un cemento impastato con menzogne, tritolo, piombo, sangue e affari oscuri. Provare a ripulirlo richiede coraggio e un popolo che pretenda di sapere e che sia disposto a guardarsi dentro, a riconoscere collettivamente le proprie responsabilità, ad agire, a partecipare, a ricostruire. E non a rivotare i vari Dell’Utri, Cosentino, Berlusconi qualora, per un qualsiasi motivo, avessero la possibilità di candidarsi ancora una volta.
Perché potete star certi che, nonostante le inchieste, le sentenze e le condanne, il consenso non gli mancherebbe affatto. D’altra parte siamo in Italia, la patria delle pene alternative ai potenti, il luogo nel quale l’impunità non solo è un dato di fatto, ma è anche un riconoscimento prestigioso. Perfino un premio alla carriera.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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