Gli anni ’80 sono un ricordo che spesso corre sui libri, nelle canzoni, al cinema, sul web, nella moda, con quelle celebrazioni dal sapore vintage che suscitano qualche sorriso intriso di malinconia in tutti coloro che all’epoca erano adolescenti, giovani, bambini. Era il tempo di un benessere finto e drogato, che oggi qualcuno rimembra come fosse l’Eldorado, nonostante siamo qui a pagarne ancora le conseguenze, politiche ed economiche. Ciò che si dimentica, invece, è che gli anni ’80 sono stati quelli nei quali è mancato il rumore del dissenso, della riformulazione attiva di un modello di società differente, che facesse tesoro dei valori più autentici per i quali si era lottato nei decenni precedenti. Sono stati gli anni del rampantismo, dell’imborghesimento definitivo di quei giovani che avrebbero dovuto rivoltare una classe dirigente sempre più compromessa e che invece si sono trasformati in una loro triste ma ben riuscita fotocopia.
Eppure il dissenso esisteva anche allora e si misurava tragicamente in tutti coloro che, in mezzo a una palude riempita di isolamento e fango, decidevano di non piegarsi, di non rinunciare alla dignità, di difendere la libertà della propria terra e della propria gente dall’oppressione violenta di una mafia che insanguinava le strade e teneva in pugno la politica, a tutti i livelli, controllando interi territori, manovrando i propri burattini seduti negli enti e nelle amministrazioni, nelle istituzioni più importanti. Donne e uomini, magistrati, giornalisti, amministratori, poliziotti, carabinieri, cittadini che sono diventati esempi, nomi che spesso scorrono anche sulla memoria di chi non li ha mai conosciuti: Giancarlo Siani, Giorgio Ambrosoli, Rocco Chinnici, Giuseppe Fava, Renata Fonte, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Salvatore Nuvoletta, Ninni Cassarà e tanti altri.
Donne e uomini impegnati attivamente, attraverso l’esercizio costante del proprio senso del dovere, nella lotta al malaffare, alla criminalità organizzata, al perverso blocco di potere mafia-politica-imprenditoria che decideva le sorti della nazione. Nomi che sono arrivati fino a noi, storie che abbiamo conosciuto e che abbiamo il dovere di far conoscere a chi è nato dopo o lontano da loro. Ma abbiamo anche bisogno di insegnare, prima di tutto a noi stessi, a non dimenticare anche altri nomi, meno noti eppure fondamentali, soprattutto perché hanno dato il senso della dignità a chi era abituato a soccombere e tacere.
Pionieri di qualcosa, l’antiracket, che soltanto dopo un altro assassinio eclatante, quello di Libero Grassi nel 1991, ha iniziato a diventare argomento di interesse nazionale, nonostante qualche anno prima vi era già stata una vicenda esemplare, a Palazzolo Acreide (Sr), dove un gruppo di commercianti si era unito contro gli estortori che rovinavano la notte facendo saltare in aria i negozi. Soprattutto, sempre qualche anno prima del ’91, un imprenditore di Niscemi, Francesco Pepi, titolare della Paic Sud, un’azienda di conserve di prodotti tipici siciliani, si era ribellato al pizzo, aveva respinto le richieste degli estortori. Non solo, Pepi aveva anche deciso di convincere gli altri imprenditori del nisseno, area segnata da una violentissima guerra di mafia, a ribellarsi e opporsi al racket.
Un attivismo che gli è costato la vita. Venne ucciso, in un agguato, nel 1989. Solo quattordici anni dopo, nel 2003, lo Stato lo ha riconosciuto come vittima di mafia. Per anni, egli è rimasto nell’oblio, la sua storia sconosciuta, colpevolmente relegata in un angolo buio e impolverato della memoria di questo Paese. Oggi, venticinque anni dopo il suo omicidio, finalmente sono stati scoperti i suoi assassini. Furono i vertici di Cosa nostra a decretare la condanna di Pepi. In particolare, Giuseppe “Piddu” Madonia, storico boss arrestato nel 1992 dopo quasi dieci anni di latitanza.
Ben dodici le ordinanze di custodia cautelare ai danni di esponenti della mafia nissena e della stidda gelese, all’epoca in guerra tra loro, ma concordi nell’eliminare questo imprenditore che aveva “osato” ribellarsi e adoperarsi affinché altri lo seguissero, nella speranza di liberare l’economia della sua provincia dalle pressioni e dalle infiltrazioni dei clan. Ecco il dissenso di un uomo libero, nella forma più immediatamente e pienamente civile, nella provincia più mafiosa nel panorama nazionale degli anni ’80. Un atto di coraggio, quello di Pepi, che non ebbe le conseguenze sperate, non produsse la presa di coscienza necessaria.
Oggi, finalmente, sono stati scovati i responsabili di quella morte, o meglio i mandanti e gli esecutori materiali. Ma c’è una domanda a cui, in casi come questo, diventa difficile rispondere: quando usciranno alla scoperta tutti gli altri responsabili (quelli morali) dell’isolamento, della morte e, soprattutto, dell’oblio a cui questo Paese ha condannato un uomo onesto, pieno di dignità, caduto nella lotta per la liberazione della sua terra dallo strapotere mafioso? La risposta, amara come il tempo fuggito, si aggrappa alla speranza che gli anni Ottanta, quegli anni Ottanta, non tornino mai più.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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