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Una mattina mi son svegliato, tra l’altro malconcio e influenzato, e ho trovato… una notizia imbarazzante. E sinceramente non me l’aspettavo. Marcello Dell’Utri, il fondatore di Forza Italia, l’uomo che, secondo molti collaboratori di giustizia, sarebbe stato, nel dopo stragi del ’92, il nuovo riferimento politico della mafia siciliana, l’amico fraterno di Silvio Berlusconi e del boss Mangano, non si trova più. Addirittura scopriamo che è scomparso da un mese.
L’ex senatore, condannato in due gradi di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, martedì riceverà il verdetto finale della Cassazione. La Corte d’Appello, in virtù del pericolo di fuga, aveva disposto la custodia cautelare in attesa della sentenza, ma quando la Squadra Mobile di Palermo si è recata da Dell’Utri non ne ha trovato traccia. Dalle intercettazioni, pare che egli abbia lasciato l’Italia da circa una settimana rifugiandosi probabilmente in Libano. Introvabile.
Latitante. Ufficialmente latitante. Il declino finale di un uomo grigio che, con questo gesto, ha gettato la maschera, ha svestito i panni con cui recitava la sua innocenza, la sua serenità, l’essere semplicemente un uomo di cultura, amante dei libri e della storia, dedito alla politica con trasparenza, accanto al suo amico e sodale, quel Cavaliere spregiudicato e pregiudicato, che di solito usa maggiore arroganza, è meno elegante, più rozzo e irrequieto e sicuramente privo di nobili interessi culturali e storici.
Latitante. Un segnale chiaro. Non di persecuzione ma di colpevolezza di fronte a un processo equo e giusto, che lo ha visto condannato in due gradi. Non ha voluto attendere il terzo, ha preferito andare via. Scomparire. Lo stile è quello di un mafioso, non di uno qualunque, ma di un alto livello, che di certo avrà complici di primo piano. Complici interessati alla sua latitanza, preoccupati da una sua condanna definitiva e dal suo ingresso in carcere.
Perché Dell’Utri non è Cuffaro. Cuffaro è una mezza cartuccia, il suo un fatto regionale, limitato. Ecco perché può stare in galera, tacere, non urlare, non sbraitare, fino al ritorno alla vita di sempre. Ma Dell’Utri no, Dell’Utri è un calibro grosso. Lui è quello che dopo la condanna in Appello, disse: ““Mangano è un eroe perché ha la lampo a tenuta stagna. Purtroppo non capita a tutti questa fortuna: io, per esempio se mi trovassi in carcere, tipo se venisse confermata in cassazione la mia condanna e io dovessi finire dentro per quattro anni, non so se saprei mantenere proprio completamente chiusa la cerniera lampo”.
Un messaggio chiaro, ripetuto ancora una volta, come aveva già fatto in passato. Molti non ci hanno riflettuto molto, si sono concentrati sulla prima fase, su quella oscena associazione tra mafioso ed eroe, mentre il punto focale era il contenuto successivo, cioè il perché Dell’Utri lo considerasse eroe: il silenzio di Mangano, l’esser riuscito a portarsi i segreti nella tomba.
Dell’Utri non è mai stato disposto a seguire quell’esempio. Ha l’incubo del carcere. Non ha voglia di resistere. Parlerebbe, tirandosi dentro e portando a fondo chissà quanti in questo momento tremano e magari lo aiutano a nascondersi. L’augurio è che la polizia lo trovi subito, prima che qualcuno risolva il rischio di delazione in maniera più sbrigativa. Mi auguro vivamente la galera per Dell’Utri e tanti, tanti interrogatori.
Detto questo, il pensiero che stamattina, tra starnuti ed emicrania, ha preso più spazio nella mia mente è però un altro: al di là della fuga, della latitanza, della sentenza e delle condanne, qualcuno aveva davvero bisogno di tutto questo per capire chi è Dell’Utri e chi sono i suoi amici? Sono anni che è invischiato in affari loschi, che proferisce pensieri e parole che oltraggiano la memoria e il buon senso, che è dentro i verbali dei collaboratori di giustizia. Eppure è stato votato ugualmente, così come il suo partito e il capo del suo partito. E chissà, magari lo avrebbero votato ancora, se solo il suo reato fosse andato in prescrizione o se per qualche cavillo fosse stato archiviato o assolto. Lo farebbero in molti anche con Cosentino o con Cuffaro. Magari difendendoli dalla magistratura che perseguita e si accanisce. Un vocabolario ormai diffuso e pericoloso.
Ricordo che qualche anno fa, nel 2007 se non erro, Dell’Utri venne invitato a Siracusa, all’università, in quanto bibliofilo esperto di letteratura antica (guarda caso sua nipote frequentava quell’ateneo, ma sarà di sicuro una coincidenza). Invitato. Quando già era stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ricordo che avevo già scritto, a quel tempo, un paio di articoli (su l’Isola Possibile, inserto regionale del Manifesto) che lo tiravano in ballo, con mille attenzioni all’uso del condizionale per evitare una sua querela (abbastanza facile a quanto pare). Ricordo che, sul quotidiano La Sicilia, uscì un pezzo sull’incontro all’università, nel quale si descriveva l’amore per i testi antichi del senatore e la lectio magistralis impartita a un gruppo di studenti di un master. Nessuna parola di indignazione del giornalista su quell’invito, sui guai giudiziari di un uomo in odore di mafia che dei magistrati avevano condannato. Nella foto che sovrastava l’articolo, tra gli studenti del master riconobbi un vecchio compagno di scuola, sorridente. Capii che le tante chiacchiere, le parole, le idee che circondavano i dibattiti a scuola o le assemblee o le discussioni con i docenti su mafia e antimafia, non erano servite a nulla. Così come a poco servivano, in generale, le sentenze, che non potevano cambiare il DNA di un Paese, come qualcuno pensava. E mi infuriai.
Ecco perché, oggi, dinnanzi alla notizia della latitanza di un delinquente, quello che mi preoccupa maggiormente è la percezione del reato da parte dell’opinione pubblica e la comprensione o meno del fatto che i primi giudici, i primi a decretare una sentenza che produca la scomparsa dalla scena politica di un uomo sul quale si ha certezza o anche solo sospetto di connivenza con la mafia, siamo noi. Cittadini. Individui. Che scegliamo. Possiamo ancora e sempre scegliere. Come? Non votando per loro, non aspettandoci che siano i magistrati a salvarci, soprattutto non accettando, ad esempio, di divenire complici, di lasciare che un mafioso venga a dare lezioni in un’aula universitaria, parli a dei giovani, si faccia delle foto con loro, si faccia raccontare e descrivere in quella maniera da giornalisti con la coda agitata dinnanzi al potere.
Perché i veri latitanti, quelli pericolosi, che nessuno potrà cercare, scovare o fermare, siamo proprio noi. Più o meno consapevoli di esserlo. E a corto di alibi accettabili.
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