Non credo ci sia da festeggiare, non ci sono bottiglie da stappare, bicchieri di prosecco da lasciar tintinnare alla salute di quello che è solo un atto dovuto. Anche perché facendolo si certifica che in Italia si celebra come eccezionalità quel che dovrebbe essere normalità (e non impareremo mai a distinguere normalità da eccezionalità). Il Parlamento ha votato per la decadenza del pregiudicato (condannato in via definitiva) Silvio Berlusconi. Non esistevano ragioni per fare il contrario. Eppure attorno a quella che è una decisione legittima, legale, istituzionale e democratica, si è costruito l’ennesimo spettacolo indegno, con i soliti eccessi, verbali e scenografici, arricchito dai segni evidenti dello sfaldamento di un clan che per anni è rimasto compatto sotto la guida autoritaria del proprio capo protettore. Sono state pronunciate le consuete frasi eversive, irresponsabili, con paragoni blasfemi e riletture storiche strumentali.
“Colpo di Stato”, “persecuzione”, “la fine della libertà”, la “morte della democrazia”. Già, democrazia, una parola abusata da chi per anni l’ha sbeffeggiata, raggirata, minacciata. Hanno dimenticato, i soldatini/scagnozzi/servi del Caimano, che la stoffa per i nastrini neri da mettere al braccio in segno di lutto e abbinare alle vesti delle senatrici/vedove, è stata ricavata dai chilometri di bavagli con i quali per anni essi hanno provato a chiudere la bocca dell’Italia. Hanno dimenticato tutto, pur agendo sempre allo stesso modo. Senza il minimo rispetto per le regole o per le istituzioni che si comportano secondo le regole, quelle generali, non quelle costruite e aggiustate da loro, a colpi di fiducia e di maggioranze drogate o acquistate al mercato nero, dove uno Scilipoti o un Di Gregorio o un Razzi li compravi a buon prezzo e senza trattare troppo. Altri tempi.
La decadenza è un atto dovuto, come detto, da accogliere positivamente, ma non è la fine di un sistema, di un’era, di una sottocultura che ha corrotto il tessuto cellulare di un popolo che ancora non è emerso dal torpore disordinato di un ventennio di qualunquismo sfrenato. Un popolo che non ha ancora maturato una propria consapevolezza e si divide tra pecore irriducibili, menefreghisti, incazzati fermi sul posto, cittadini incantati dal tuttiacasa, rassegnati, delusi senza patria e, soprattutto, paladini del tantosonotuttiuguali. In un Paese nel quale gli intellettuali hanno abdicato, non hanno avuto la voglia né il coraggio di impegnarsi sul serio, di uscire allo scoperto e sobbarcarsi la fatica di una lotta durissima in un ambiente ostile, non c’è da meravigliarsi troppo se abbiamo dovuto attendere vent’anni per liberarci, almeno per ora, di Silvio Berlusconi.
Abbiamo dovuto attendere lo sviluppo di una delle sue tante vicende processuali, tra le poche ad essere sfuggite alle leggi ad personam o agli interventi correttivi o ai favori di quelli che hanno recitato il ruolo di avversari (anche se grazie all’indulto la pena è stata ridotta). Abbiamo dovuto subire la vergognosa alleanza tra il centro-sinistra (ma la seconda parte della parola composta, direi che ormai possiamo toglierla di mezzo) e il nemico storico. Sarebbe stato molto più bello, edificante e meno nocivo se l’assenza di Berlusconi dalle camere parlamentari fosse stata una conseguenza di una scelta elettorale, che avesse punito anche tutto il suo schieramento, i suoi complici, quelli che oggi governano ancora, insieme a Letta “ilnipotedellozio”, ma nel frattempo votano contro la decadenza.
Sì, perché il Caimano sarà pure fuori dal Senato, magari presto finirà agli arresti domiciliari, magari scapperà verso mete esotiche per sfuggire ad altre condanne, ma le sue scorie, i suoi resti indifferenziati, ce li troviamo ancora lì, a braccetto con gli ex nemici. E il risultato non è per niente positivo, né dall’altra parte del campo si prospettano scenari rassicuranti, visto l’identikit del prossimo leader del Pd, quel giovane reazionario dall’educazione democristiana, allergico al progressismo nonostante le apparenze. Di quello che c’è oltre, inutile occuparsi, perché è una setta composita e variopinta che però uccide il dialogo in nome dell’egocentrismo politico e mediatico di un duopolio grigio, schizzinoso di fronte al potere, ma felice di starvici dentro senza assunzioni di responsabilità.
Le alternative, insomma, non si riesce proprio a trovarle. Ecco perché c’è poco da festeggiare e poco da sperare che le cose cambino. Berlusconi ha ancora in mano il Paese e ha ancora potere da esercitare nei confronti di molti uomini di governo. Insomma, può in qualsiasi momento rompere gli equilibri. E se Letta crede di essersi liberato di un peso sbaglia, perché i superstiti, quelli che non sono saliti sul treno di ritorno a Forza Italia, adesso diventano decisivi e aumentano il proprio potere di ricatto. Vedremo. Cercheremo di capire, sperando che non si debbano trascorrere altri mesi sotto il bombardamento di questioni secondarie, litigi interni, primarie, polemiche partitiche, anche se il timore che la questione Berlusconi si trascini ancora a lungo è più che fondato.
Perché in Italia ci si è quasi assuefatti all’idea che la vicenda personale di un pregiudicato, di quel pregiudicato, sia prioritaria o decisiva per le sorti di una nazione in piena crisi economica, politica e sociale, nella quale, in realtà, le parole, l’attività delle istituzioni e delle forze politiche dovrebbero spettare ed essere riservate di diritto a chi vive nella precarietà, alle situazioni da sanare, all’interesse collettivo. Forse solo quando Berlusconi non ci sarà più fisicamente, quando questa anomalia non sarà più coagulante di eserciti eversivi, riusciremo a tornare lentamente alla normalità, ad accogliere certi atti come normali e non eccezionali. Ma non basterà, se non saremo noi a cambiare e a fare la nostra parte. Cominciando con il dare il buon esempio ad ogni livello. La sfida più dura per questo popolo di furbi, affascinati dai più furbi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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