Provate a ricordare quante volte la sensazione che potesse tornare, in questo Paese stagnante e irrespirabile, un po’ d’ossigeno si sia incastrata nell’ingranaggio di una storia di speranze deluse. Se ci riuscite, sappiate che questa è la memoria dell’italiano consapevole, sufficientemente angosciato e timidamente speranzoso. Terrificato, a volte. Rassegnato, molto spesso. Ottimista, raramente. C’è un desiderio che, almeno in linea teorica, dovrebbe appartenere a tutti: il desiderio di essere rappresentati da una classe politica fatta di persone oneste e competenti, votate a privilegiare l’interesse collettivo e mai quello personale, scevre da tentazioni nefaste e lontane da ogni forma di corruzione. Peccato che, nella pratica, per la gran parte degli italiani questo ideale sia stato soppiantato da una storia fatta di “scambio”, di calcoli privati che hanno trasformato il voto in un mercato fatto di reciproche convenienze. Una costante nella nostra storia, un virus che nessun antibiotico, nemmeno la democrazia repubblicana, è riuscito mai realmente a debellare, estirpare, fermare. Dopo Tangentopoli qualcuno pensava che fossimo giunti al punto di non ritorno, ad un momento a partire dal quale il corso della storia avrebbe seguito una direzione nuova, retta, virtuosa.
Cosa è accaduto? Nulla. Altre facce, altri nomi (non sempre), altri campi di azione, ma uguale sistema, identiche dinamiche, comportamenti speculari. Scandali su scandali, compiuti quotidianamente, mentre l’Italia affondava e affonda, umiliata, divisa, lasciata per anni nelle mani di giocatori d’azzardo del potere che si sono sollazzati e divertiti scialacquando sfacciatamente sul tavolo da gioco le prerogative dei cittadini, le prospettive di crescita, i servizi sociali essenziali, la legalità, la cultura, la ricerca, il futuro dei giovani, i diritti fondamentali della persona. Un gioco folle, sotto la luce di un Paese che, in basso, lottava e lotta per sopravvivere nonostante tutto, salendo sui tetti, sulle gru, sulle torri, sopra i tralicci, a urlare la propria disperazione. Oggi si parla di un emendamento al ddl anti-corruzione, con cui si chiede l’ineleggibilità di chi ha una condanna passata in giudicato.
Una scelta che avviene dopo anni di scandalose “presenze” tra i banchi delle istituzioni ad ogni livello, che hanno sporcato il senso di uno Stato che detiene il record di delinquenti e mafiosi a cui invece delle porte della galera hanno aperto quelle sacre delle stanze decisionali della democrazia. Basterà? E soprattutto: è un convinto cambio di rotta verso una politica in cui ci sia più morale e più rispetto per il valore delle istituzioni o è solo un tentativo di non perdere terreno tra gli elettori rispetto a quello che è un punto su cui insistono molto le forze come il Movimento 5 Stelle o i rottamatori alla Renzi? Consentiteci di dubitare, perché è strano che si proponga un emendamento di tal genere a un decreto, quello sulla corruzione, che da tempo galleggia e ritarda per mancanza di volontà reale da parte delle forze politiche che siedono nelle due Camere parlamentari.
Si accelera su una parte mentre si tergiversa miseramente sul suo fondamentale contenitore. Ed allora torniamo a quella sensazione iniziale, a quella speranza che naviga in un mare di sfiducia e di diffidenza, a quella sorta di meccanismo di autodifesa che abbiamo imparato a costruirci da noi, colpevolmente, perché è molto più comodo che mettere al muro chi fabbrica delusioni e raggiri più o meno legalizzati. Torniamo a chiederci e a chiedere, a chi propone emendamenti a interventi legislativi in ritardo da secoli: credete che davvero sia sufficiente rendere ineleggibile chi ha una condanna passata in giudicato, senza specificare le tipologie di reato, le scorciatoie a cui magari state pensando, le edulcorazioni della norma e le eccezioni varie? Credete, inoltre, che siano solo le sentenze e le condanne a decretare tout court chi può e chi non può essere messo in lista?
Se pensate che questo basti a ripulire il campo siete fuori strada, perché la moralità di una candidatura non si misura con le sentenze, ma con la condotta effettiva di ognuno dei candidati. Se un uomo è in odor di mafia non va presentato, anche se ancora non pesa su di lui una condanna definitiva, perché la politica non deve essere guidata dalla magistratura, ma autoregolamentarsi da sé, magari sbrigandosi ad approvare un efficace ddl sulla corruzione. Se non si ha chiaro questo codice di condotta morale, che non risponde ad alcuna pronuncia di un giudice, allora questa norma è esattamente un tentativo di buttar fumo negli occhi, perché non avrebbe impedito ugualmente a Cuffaro, nel 2006, di candidarsi a presidente della Regione Sicilia, così come non gli avrebbe impedito nel 2008 di ricandidarsi al Senato nonostante l’interdizione dai pubblici uffici.
La stessa norma non impedirebbe la candidatura, oggi, del senatore Dell’Utri, sotto processo per mafia, condannato nei primi due gradi di giudizio e ora in attesa di nuovo giudizio dopo la sentenza di annullamento con rinvio in appello da parte della Cassazione. Insomma, questo emendamento di cui il Pd si assume ogni merito, più che una convinta scelta morale ci sembra tanto un paravento con rifiniture mediatiche per mostrare di avere a cuore un tema che ha bisogno di ben altre prove di fede. Prove che, al momento, latitano pesantemente.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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