Il risultato sul filo di lana del referendum costituzionale in Turchia, dove il “sì” ha vinto con il 51,4 per cento dei voti, ha evidenziato una profonda spaccatura nel paese, dove il presidente Recep Tayyip Erdogan potrà ora concentrare nelle sue mani il potere esecutivo e influenzare in modo significativo il parlamento e l’apparato giudiziario. Con l’approvazione del referendum, infatti, la Turchia diventa a tutti gli effetti una repubblica presidenziale, in cui il capo dello Stato assumerà tutti i poteri ora riservati al premier e al Consiglio dei ministri e avrà la facoltà di emettere decreti su diritti personali e libertà fondamentali, definire linee di politica interna ed estera,  nominare e rimuovere vicepresidenti, ministri ed ufficiali di alto livello, incluso il capo di Stato maggiore della Difesa, e designare giudici nel Consiglio superiore della magistratura e nella Corte costituzionale.

Tutto questo a partire dal 2019, anno in cui l’attuale presidente Erdogan concluderà il suo primo mandato alla guida del paese.

La distribuzione dei voti di domenica 16 aprile sul territorio turco fa emergere però divisioni trasversali e profonde che sarà difficile ignorare, soprattutto nel lungo periodo. Ci sono le divisioni tra le aree rurali e interne del paese e le grandi città, come Istanbul, Ankara e Smirne, dove il “no” ha ottenuto la maggioranza delle preferenze. A Istanbul e Ankara i voti contrari alle modifiche costituzionali sono stati poco più del 51 per cento, mentre a Smirne ben il 68,8 per cento dei votanti ha bocciato la riforma. Una situazione molto diversa è quella emersa nelle campagne e nelle aree interne dove ha vinto nettamente il “sì”.

Ci sono poi le divisioni interne alle forze politiche. Secondo un’analisi del quotidiano “Hurriyet” sui risultati del voto, il partito d’opposizione del Movimento nazionalista (Mhp) avrebbe contribuito alla vittoria del “sì” per il 3 per cento, mentre un altro 1,5 per cento sarebbe arrivato da elettori delusi del Partito democratico dei popoli (Hdp, il movimento politico filocurdo). Per il partito nazionalista (i “Lupi grigi””) guidato da Devlet Bahceli, il risultato del referendum è stato deludente, considerando che alle ultime elezioni legislative la formazione politica aveva ottenuto l’11,9 per cento. Dal risultato del voto è emerso, infatti, che molti elettori dell’Mhp sembrano non aver gradito il patto stretto da Bahceli con Erdogan prima dell’approvazione del referendum in parlamento.

In base all’accordo siglato dai due leader politici all’inizio di quest’anno, i deputati nazionalisti hanno dato il loro benestare alla riforma della Costituzione in cambio del mancato riconoscimento di diritti promessi alla comunità curda. Nelle urne, tuttavia, molti elettori dell’Mhp hanno espresso un’opinione differente, seguendo le linee guida dell’ala riformatrice del partito, contrarie appunto alla riforma costituzionale.

Se quindi il risultato del referendum cementerà il potere di Erdogan, garantendo una forte stabilità al paese per lo meno nel breve periodo, è probabile invece che in futuro l’opposizione al nuovo “rais” possa consolidarsi, dando luogo a nuove proteste e manifestazioni popolari, appoggiate anche da forze radicali curde. Nei giorni scorsi decine di persone sono state arrestate in diverse parti della Turchia con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate.

La maggiore forza politica dell’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Chp), da parte sua, ha subito chiesto l’annullamento del referendum, contestando le procedure seguite durante lo spoglio delle schede. Anche l’Hdp ha protestato contro l’esito del referendum, rifacendosi ai risultati di una missione di osservatori dell’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (Osce). Gli osservatori dell’Osce hanno sottolineato in un comunicato che il referendum costituzionale del 16 aprile è stato caratterizzato da alcune disparità tra le due parti in competizione, in una situazione di forte limitazione delle libertà fondamentali. La Corte elettorale turca ha respinto entrambi i ricorsi, causando un forte malumore che potrebbe sfociare in nuove proteste in un contesto già difficile.

Non va dimenticato infatti che in Turchia gran parte delle forze di sicurezza sono ormai impegnate, da più di un anno e mezzo, in una lotta senza quartiere contro i militanti armati curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, gruppo considerato terroristico da Ankara, dall’Ue e dagli Stati Uniti. Le stesse forze di sicurezza sono state letteralmente decapitate e fortemente ridimensionate in seguito al fallito golpe del 15 luglio 2016, per via delle purghe ordinate dallo stesso Erdogan nei confronti di tutti i sostenitori di Fethullah Gulen, predicatore islamico residente negli Usa ritenuto l’ispiratore del tentato colpo di Stato.

La minoranza curda, da parte sua, malgrado i complicati rapporti con Erdogan e la repressione subita dai militanti armati nell’ultimo periodo, continua a rappresentare una forza determinante nel panorama politico del paese. I risultati del referendum costituzionale nelle province a maggioranza curda evidenzia per altro divisioni anche al suo interno. Nelle province orientali e sud-orientali, dove risiede gran parte della minoranza turca, la percentuale di “sì” al referendum di domenica è stata significativamente più alta, infatti, rispetto a quella ottenuta dal partito di governo, Giustizia e sviluppo, alle elezioni legislative del novembre 2015.

Come già avvenuto durante quelle consultazioni rispetto a quelle precedenti, il voto curdo si è spostato dall’Hdp verso l’Akp, a dimostrazione che una buona fetta degli elettori “conservatori” curdi sembra ormai aver preso le distanze dalla lotta armata e dalle rivendicazioni politiche sostenute dal partito politico filocurdo. Una situazione che gioca a favore di Erdogan e del suo programma di concentrazione del potere. Il “rais” potrà ora infatti sfruttare tutte le divisioni interne alla società per  rafforzare la polarizzazione sociale e politica e governare sotto lo stato d’emergenza, limitando libertà civili e democratiche.

Se però da una parte proseguirà il giro di vite delle autorità di Ankara contro il Pkk e i suoi sostenitori politici, dall’altra è prevedibile anche un aumento degli attacchi e degli attentati di matrice curda contro le forze di sicurezza, episodi di violenza che in molti casi coinvolgono anche i civili. Una situazione “esplosiva” che rischia di creare una forte instabilità nel paese se non viene gestita tenendo conto della metà del paese che ha bocciato il referendum di domenica 16 aprile.

G.L. -ilmegafono.org