Ne ero consapevole, attendevo da giorni, da quando ho pigiato l’ultimo tasto del mio computer per mettere la mia firma, che un ragionamento che non tenesse conto del facile strepitare di una folla esaltata, avrebbe incontrato anche molte critiche. Ci sta, è tra le consuetudini di chi scrive, per mestiere e per passione. Il movimento dei Forconi ha solleticato la pancia del popolo, fatto leva su una rabbia generalizzata, aggravata dalla crisi e da un malcontento che affonda le radici nelle nebbie incrostate del tempo e della storia. Per la verità l’adesione della gente comune, non inglobata nelle categorie e nelle corporazioni, è stata minima, ma ciò è bastato a immobilizzare un’isola, a metterne in ginocchio l’economia in un momento durissimo. E ciò è bastato a spingere anche qualche cervello pensante ad aderire tout court a questo movimento, a sposarne aprioristicamente e acriticamente le ragioni (spesso individuandole in maniera confusa e sbrigativa). Tutto nella norma, specialmente in un’isola ferita e martoriata da anni di cattiva politica e di abbandono, ma dotata di forza, orgoglio, dignità. Chiunque la pensasse diversamente, invece, è stato tacciato, dai sostenitori e dai simpatizzanti del movimento, come una sorta di “traditore”, specialmente se per qualche ragione non vive più in Sicilia, non importa se da poco tempo.
Così, le critiche più facili all’editoriale pubblicato nello scorso numero del Megafono hanno avuto come motivo dominante il presunto scarso amore per la Sicilia, l’aver dimenticato, dalla fredda e nordica Milano, quello che la mia terra è ed è stata, le sue difficoltà, la sua grandezza nell’affrontarle quotidianamente. Passa solo un anno e ti dicono che non hai diritto di parlare da lontano, non hai diritto di scrivere certe cose, non puoi permetterti. Ovviamente interpretando tutto secondo il proprio schema o la rabbia del momento. Tutto normale, ripeto, atteso e preventivato. Le interpretazioni soggettive, i disaccordi, lo scambio di opinioni. C’è però qualcosa a cui non ti abitui mai, nemmeno dopo 10 anni che scrivi e racconti: è la volgarità che la gente ha di entrare in quello che sei, di mettere in dubbio l’amore che hai per la tua terra, di scambiare le critiche ad un gruppetto misto composto da facinorosi e ambigui capipopolo, seguaci in malafede, sprovveduti e brava gente, per un giudizio insindacabile su un intero popolo e su un’isola.
No, non mi faccio invitare da nessuno a lezioni d’amore per la mia terra. Non ci vengo, non mi presento in aula, mi assento volentieri. Specialmente se i maestri improvvisati sono ragazzini eccitati da questa finta ribellione o, peggio, combattenti adulti che non si sono mai scrollati da una poltrona o da un tavolino, che ti dicevano “ma chi te lo fa fare?, tanto non cambierà mai nulla”, che non ci sono mai stati quando dovevano e potevano, che hanno lasciato che la Sicilia venisse massacrata politicamente e socialmente da un sistema di potere in cui in tanti (troppi) hanno sguazzato. E sono tanti gli aspiranti “maestri”: dagli attivisti dell’ultim’ora agli intellettuali che puzzano di naftalina o a quelli che vi si autoproclamano senza troppi pudori; da chi goffamente cerca di rifarsi una verginità a chi dice di difendere l’isola dopo aver sostenuto per anni chi governava insieme alla mafia ed alla Lega; dai delinquenti che impongono le adesioni con la prepotenza fino ai padroncini dei camion, imprenditori che protestano contro il caro gasolio, impedendo ai camionisti dipendenti (quelli che non sono padroni dei propri mezzi) di svolgere le proprie giornate di lavoro per portare a casa il pane.
No, da loro non accetto lezioni, così come non la accetto da tutti coloro che la protesta la sostengono davanti alla tastiera di un pc e allo schermo scribacchiato di un social network, perché si sentono di nuovo vivi o perché è l’unica forma di “impegno sociale” che hanno nella vita. Non le accetto da chi non sa chi sei e da dove vieni e ti accusa di non conoscere una terra in cui sei stato immerso anima e corpo, in cui hai lottato e che hai temporaneamente dovuto lasciare, a malincuore ma necessariamente, per poter continuare ad amarla e raccontarla ancora. La Sicilia ha ragioni serie per intraprendere un percorso di rivendicazioni nette, anche dure; per tale motivo il movimento dei forconi, che ha assunto la fisionomia di un’ennesima manifestazione di autotrasportatori, è colpevole di averle nascoste dietro il qualunquismo, l’ignoranza, la fragilità di chi ha costruito questa protesta ad arte per obiettivi precisi di natura politica, legati ai delicati equilibri di potere ai vertici della Regione. E il lamento vittimista di chi si è sentito ignorato e non appoggiato dai tanti movimenti (culturali, antimafia, ambientalisti) attivi da anni nell’isola, rende l’idea di quante parole siano state sprecate dai protagonisti di questa vicenda.
In pochi hanno compreso, all’interno del popolo dei forconi, che i tanti rivoluzionari di questa splendida isola hanno scelto di non partecipare per il semplice fatto che non ne hanno condiviso i modi, le linee di azione, le basi culturali (pressoché inesistenti) e non ne hanno accettato i volti, i leader, i capi. Ci sono due Sicilie in gioco. Una rimane spiazzata dal vuoto culturale e politico e si trova a riflettere sull’inerzia del mondo intellettuale, sulla mancanza (anche a livello nazionale) di voci libere che sappiano guidare il popolo verso una verità critica, verso una maturazione concreta delle proprie rivendicazioni. L’altra trova spazio in questo vuoto, in questa massificazione acritica, in cui la pseudo-ragione di una corporazione riesce a divenire il contenitore di tutte le frustrazioni, il fantoccio da presentare come vessillo di una rivoluzione immaginaria. E tutto questo, se per qualcuno è comunque un inizio, in realtà rischia di essere pericoloso, perché potrebbe mettere la Sicilia nelle mani di un’accolita di capipopolo dai contorni marcatamente reazionari.
Questa terra non ha bisogno di ritorni indietro, ma di salti in avanti. Una terra di talenti che deve smarcarsi dal senso di inferiorità rispetto alle regioni a nord del Paese, perché è un’inferiorità inesistente. La Sicilia deve rivendicare allo Stato e a se stessa, o meglio a chi l’ha gestita. Deve guardare fuori e guardarsi dentro. Deve esaltare i movimenti che ne difendono la libertà dalle mafie e dal malaffare, l’integrità dell’ambiente e del territorio, la bellezza e la straordinaria ricchezza umana e naturale. Deve sfidare gli intellettuali, costringerli ad entrare nella realtà siciliana e mischiarsi con il suo popolo, senza timori e timidezze. Deve isolare e indebolire chi la umilia, chi la svende ogni giorno, chi la rinchiude in gabbie taglienti. Deve stringersi attorno a chi è stato lasciato solo e divenirne un elemento aggiuntivo di forza. Soltanto così potremo esserci tutti, chi è rimasto e chi è andato via senza aver certezza che sia per poco o per sempre. Solo così ai forconi e alle bandiere nere potremo sostituire i libri e le zagare. E rinascere. Cambiati.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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