Un grande girotondo colorato, composto da bambini di ogni razza e colore che si tengono per mano, sorridenti, spensierati. Giocano e girano, stretti gli uni agli altri, a condividere il calore delle mani e la felicità dei sorrisi. Questa immagine era nelle pagine di un libro che ci avevano dato alle elementari. La ricordo in maniera sfocata, nel senso che non ricordo più esattamente i colori degli abiti o gli specifici tratti dei protagonisti, ma quel messaggio mi è rimasto dentro. Neri, bianchi, asiatici, mulatti: c’era l’umanità nella sua meravigliosa e necessaria variabilità. Era un totem sacro, fatto da piccoli uomini e piccole donne che sognavano un mondo allegro.

Ho sempre pensato che fosse vero quello che ci dicevano a scuola a proposito del rispetto che i bambini dovrebbero ricevere da tutti, a partire dagli adulti. Ho sempre creduto a quello che i miei genitori mi hanno insegnato sui diritti dei più piccoli, su una società che dovrebbe basarsi sui bambini, sulla necessità di non dimenticare mai di avere avuto anche noi un’infanzia. Ho sempre guardato con ammirazione il lavoro e la passione di mia madre, maestra elementare che ha scelto di insegnare solo nelle cosiddette scuole a rischio, cioè laddove vi erano gli alunni più intelligenti, ma con minori possibilità e, spesso, con inferni sociali terribili da combattere. Ho seguito le sue battaglie, ho pianto di gioia davanti alle vittorie e di rabbia davanti alle sconfitte.

Perché la scuola non basta. Da sola non può far tutto, se poi la società non prosegue quel lavoro, non include, non promuove umanità. Una società nella quale i bambini non contano nulla. Perché questo è un mondo che corre e che non vuole più lasciare spazio a tutto ciò che considera non immediatamente produttivo. Il gioco, la spensieratezza, l’infanzia, la crescita sono concetti desueti in un contesto globalizzato che, se potesse, renderebbe legale il lavoro minorile, togliendo di mezzo la parola sfruttamento, magari cambiandola con qualche termine nuovo e meno spaventoso, con qualche sigla che possa nasconderla per bene. I bambini sono vittime di tutto: della violenza, della perversione, dei giochi politici di grandi dimensioni. Bambini che pagano le colpe del destino nefasto e della miseria a cui il mondo costringe i loro luoghi di nascita.

In questi giorni, abbiamo visto e letto cose terribili, che ci sono passate davanti rapidamente, scioccandoci per qualche ora o giorno, per poi pian piano dileguarsi, come sempre, perché non c’è tempo per riflettere e bisogna andare ai fatti successivi, o semplicemente perché ci siamo abituati all’orrore e nulla ormai ci spaventa o scuote davvero. Nemmeno lo sterminio di neonati e bambini palestinesi, massacrati da un esercito spietato che le nazioni più potenti continuano a difendere, sia apertamente sia con il silenzio (che equivale all’assenso). Piccoli corpi in mezzo alla polvere o alla sabbia, sogni spezzati su una spiaggia, mentre cercavano di scappare dalle bombe e dai proiettili, convinti di farcela, perché mai avrebbero pensato che qualcuno potesse sparare a dei piccoli innocenti. E invece lo hanno fatto, allo stesso modo di come fecero i nazisti ai figli dei loro antenati.

Bambini vittime di ogni guerra, in ogni periodo storico. Oppure vittime sacrificali della speranza in un mondo migliore, come il piccolo Mohamed, di appena un anno, annegato nel Mediterraneo e portato a riva privo di vita, nella mia terra, a Messina, con accanto i genitori, che invece sono sopravvissuti fisicamente ma devastati interiormente. Siriani in fuga dalla guerra, dalle violenze, da una terra nella quale non possono tornare, al contrario di come qualche grasso e idiota giovanotto leghista continua a dire. Esseri umani che provano a rischiare il tutto per tutto pur di dare un futuro di pace ai propri figli. Genitori che, per un maledetto destino, hanno perso proprio quel bambino per il cui domani hanno lasciato tutto e affrontato l’inferno. E il mare crudele.

Mohamed e i bambini di Gaza sono il simbolo più recente di un mondo che se ne infischia dei bambini, di quelli vivi e di tutti quelli che sono morti e continuano a morire in mare dentro a una speranza a forma di onda che li ha inghiottiti o nelle città assediate sotto le bombe e i proiettili di eserciti spietati. Oppure in mezzo a un deserto o dentro la stiva di una nave. O dentro le pance delle puerpere, di quelle future madri morte nel porto di Tripoli, dove il ministro Maroni e i suoi dannati respingimenti li hanno riportati, senza alcun soccorso, senza alcuna pietà. E senza subire per questo alcuna incriminazione. Ma non mi stupisce, perché l’Italia, così come il mondo di cui fa parte, non ama i bambini.

In questo dannato pianeta oggi, ancor più che ieri, i bimbi danno fastidio, perché non producono o forse perché potrebbero diventare migliori di chi li educa, potrebbero nascondere eroi e menti illuminate, intellettuali, sognatori. Gente capace di cambiare il mondo e di sradicare i vecchi o i giovani vecchi dalle poltrone del potere. Ecco perché bisogna fermarli, con le bombe, con le onde, con i proiettili, con la privazione di tutto, dal cibo al gioco, dal tempo con la famiglia alla creatività. Perfino lo sport, a volte, non può essere gioco, ma deve essere tattica, potenza, abnegazione sin da piccolissimi.

Bisogna diventare in fretta produttivi: è l’unico modo in cui i bambini possono essere utili e ottenere un minimo di considerazione. Per l’errore non c’è più spazio e non c’è più tolleranza. Devono essere macchine perfette, infallibili, con le mani chiuse a pugno. Altro che girotondo colorato e sorrisi spensierati. Il mondo gira in direzione contraria e il suo colore è grigio fumo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org