Quanto vale la memoria in una nazione senza memoria? Me lo sono chiesto tante volte, me lo sono richiesto qualche giorno fa, il 27 gennaio, in occasione della giornata in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto, in cui si invita il mondo a non dimenticare l’abominevole genocidio perpetrato dai nazisti sugli ebrei, ma anche su omosessuali, rom, disabili, nemici ed oppositori. Una tragedia ancora viva, che viene raccontata dalle voci dei superstiti, di chi ha vissuto il dramma dei lager, di un inferno popolato da divise e fucili puntati sul volto di esseri umani ridotti a scheletri, di donne private di tutto, di bambini sottili e fragili come fuscelli al vento. Un vento gelido che per molto tempo ha disperso la cenere che fuoriusciva dai forni crematori, ha coperto il sangue dei fucilati ed i corpi caduti dentro le camere a gas, ha silenziato la disperazione ed il dolore che popolavano le latrine, le gelide camerate di legno. Per lungo tempo, durante lo sterminio, la maggior parte della gente non sapeva che fine avrebbero fatto tutti quegli esseri umani stipati nei treni, come fossero merci o bestiame, e condotti nei “campi di lavoro e morte” di Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Belzec, Sobibor.
Nessuno immaginava, nessuno poteva credere possibile l’esistenza di un piano di eliminazione scientifica di un popolo, di un’intera stirpe. È accaduto, in un’epoca in cui le armi di distruzione di massa erano ancora ai primordi. Immaginate cosa potrebbe accadere oggi, con la tecnologia in mano ad un nuovo Hitler. Per tale ragione, oltre che per rispetto del sacrificio di sei milioni di persone eliminate per il solo motivo di essere ritenute “diverse”, per etnia, orientamento sessuale, capacità fisiche, idee politiche, abbiamo l’obbligo morale e culturale di ricordare. Non è utile solo per comprendere il passato, non serve soltanto per la commemorazione dei morti: è fondamentale per il nostro futuro e per quello delle generazioni che verranno, quelle che saranno troppo lontane storicamente da questa tragedia, quelle che non avranno mai modo e opportunità di sentir parlare chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Ma in questo Paese senza memoria come faremo a difendere la memoria? Una domanda che mi assilla, che non trova risposte certe.
Nonostante i tanti esempi, le testimonianze, l’attivismo della comunità ebraica, l’opera di intellettuali, scrittori, registi, docenti, nonostante le parole del presidente della Repubblica e l’impegno di una fetta importante della società civile che prova a far conoscere ai più giovani questa terribile parte di storia, l’Italia stenta a ricordare pienamente, si divide anche su questo. C’è chi contrappone alla Shoah altri drammi, come le Foibe, per cercare di politicizzare ciò che non va politicizzato. Un gioco stolto e perverso, che mira a mettere a confronto tragedie, dolori, drammi umani veri, per trovare delle responsabilità politiche da sviscerare e applicare all’oggi. Un’idiozia volgare che, nel nostro Paese, è ormai routine e fomenta l’imbecillità di gruppuscoli politici che riempiono volantini, manifesti o muri con messaggi e scritte agghiaccianti, a cui altri rispondono con altre assurdità. Il segno evidente dell’assenza di memoria, di capacità critica, di precisi limiti di interpretazione rispetto a ciò che la storia ha sancito.
Non tanto la storia scritta sui libri di scuola, quanto quella impressa a fuoco sulla pelle di chi vi si è trovato coinvolto suo malgrado. E le istituzioni? Fatta eccezione per il Capo dello Stato c’è stato solo un silenzio ripugnante. Non una parola da chi guida questo governo fantoccio, messo lì solo per salvare il Sovrano dai suoi guai personali. Non una parola sulla memoria, sul senso di questa giornata, non un messaggio alle comunità ebraiche, ai giovani, nulla. Silvio Berlusconi tace, dimenticando di essere il primo ministro di una Repubblica nata dalla fiera opposizione al nazi-fascismo. D’altra parte il Re di Arcore è colui che il dramma degli ebrei lo ha infilato, con truce squallore, dentro il suo repertorio di barzellette da locanda malfamata. Come aspettarsi poi parole di condanna del genocidio compiuto nei lager, da uno come lui che ama definirsi amico di Gheddafi, dittatore libico che nel suo regno, dentro carceri-lager, ogni giorno, attraverso i suoi militari, massacra, stupra e uccide indisturbato masse di disperati in fuga dalla fame e dalla guerra?
Gli stringe la mano e anzi ne importa, riadattandole, le usanze più barbare, come quel “bunga-bunga” che tutti nominano ridendo, magari perché non sanno nemmeno che si tratta di un termine che indica un’atroce pratica tribale, vale a dire uno stupro anale di gruppo ai danni di chi oltrepassa i confini del territorio di una tribù. Poco da ridere insomma. Ma l’ignoranza ci porta proprio a questo. E se l’ignoranza è veicolata da chi guida un Paese ed utilizza le sue tv (comprese quelle di Stato) ed i suoi giornali per invaderlo di volgarità imbarazzanti, allora diventa davvero difficile far passare la memoria e la cultura, far capire che l’orrore non può diventare barzelletta. Perdere la memoria significa smarrire il senso di ogni cosa, degli eventi, delle parole, del dolore, significa non comprendere, soprattutto non ti permette di percepire il rischio di poter ritrovare sé stessi o i propri figli dentro nuove tragedie senza uscita. Sembra un’esagerazione, appare oggi impossibile che prendano forma scenari così enormemente disumani.
Nessuna esagerazione, purtroppo. La storia del mondo ha conosciuto improvvise accelerazioni verso l’orrore, solo le persone illuminate, solo quelle che avevano memoria e coscienza potevano prevederlo. Non sono qualità profetiche, ma culturali. In questa nostra Italia in piena crisi e pericolosamente nostalgica, inserita nel contesto di tensioni che attraversano questo mondo attuale, con una classe politica da circo, con almeno quattro mafie fortissime sia economicamente che culturalmente, l’equilibrio è sempre molto sottile e tutto può accadere. In una nazione che non ne ha, la memoria ha un valore inestimabile. Così come a livello internazionale, dove lo scenario è ancor più preoccupante.
Ed allora mai abbassare la guardia, mai dimenticare di cosa è stato capace l’uomo. Ricordare, raccontare, a partire dai più piccoli, quel che fu e di cui ancora esistono i segni, le voci, i volti, gli sguardi. Se continuiamo a non farlo, a lasciar spazio ai negazionismi, all’ignoranza, al silenzio e all’indifferenza, condanneremo i nostri figli ed i loro figli ad un’eterna debolezza, contamineremo la loro capacità di evitare che certe cose si ripetano o, comunque, di essere preparati e pronti a combatterle. E sarà lì che l’avvertimento di Primo Levi, nell’introduzione a “Se questo è un uomo”, assumerà forma concreta: “Meditate che questo è stato/Vi comando queste parole/Scolpitele nel vostro cuore/Stando in casa andando per via/Coricandovi alzandovi/Ripetetele ai vostri figli/O vi si sfaccia la casa/La malattia vi impedisca/I vostri nati torcano il viso da voi”.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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